Il giorno che Valerio Conti ha preso la maglia rosa, suo padre è sceso di sotto, al bar, e ha offerto da bere a tutti. Franco è stato un buon corridore, ha vinto il Giro dilettanti più di 40 anni fa. Suo fratello Noè vinse la Coppa Bernocchi nel ‘59. Fu lui a regalare la prima bici a Valerio, che aveva 13 anni e giocava (bene) a pallone, «però sentivo una cosa dentro, sarà il dna».
Sono passati tre mesi. Se pensa al Giro d’Italia, qual è il primo ricordo che ha?
«Avevo passato il traguardo da dieci minuti. Lo sapevo che ero andato in rosa, ma quando ti dicono che ti aspettano sul palco e vedi che ti stanno preparando la maglia, che stai per mettertela, è incredibile. Non ho capito più niente».
E’ stato il giorno più bello della sua vita?
«Forse no». Lungo silenzio. «Forse sì».
Il Giro ha cambiato la sua vita?
«Inevitabilmente sì. Tante chiamate, mi volevano tutti, mi hanno festeggiato. Ma sono cambiate anche le mie aspettative, voglio confermare di poter essere ancora a questi livelli, mi alleno con più convinzione, più responsabilità. Ma devo essere sincero, è qualcosa che è successo prima. Un specie di clic nella mia testa, l’ho sentito quest’inverno, è un po’ tutta la stagione che è stata diversa dalle altre. Peccato per quel problema che mi ha costretto a lasciare il Giro, sono stato tanto fermo, adesso sono un po’ più indietro di come vorrei».
Prima di quel clic cosa c’era di diverso, di meno?
«Ognuno ha i suoi tempi, ho avuto bisogno di maturare. E’ complesso quello che succede nella testa di un atleta finché non si sveglia».
Dopo il Giro invece?
«Sono dovuto stare 25 giorni senza toccare la bici, troppi. Da una parte ero contentissimo per quello che avevo vissuto, dall’altra nervoso perché lo stop mi pesava, perdere un mese è complicato. Avevo un po’ di ansia, paura di non riuscire a stare come volevo».
Come ha reagito?
«Ho imparato a lasciar andare le cose. Nelle prime due settimane dopo il Giro avrò preso cinque chili, feste da tutte le parti, parenti, amici. Poi mi sono dovuto dare una regolata».
Cinque chili per un corridore sono una bestemmia.
«Adoro i primi piatti, la cacio e pepe, la carbonara. Ma se devo scegliere una cosa sola, dico la pizza tonno e pomodorini».
Qualcuno è cambiato nei suoi confronti dopo la settimana in maglia rosa?
«Non direi. Ma ho visto migliaia di volte persone sbavare dietro a qualcuno e poi sparire quando le cose vanno male: è una cosa che odio».
Le piacciono Verdone e Villaggio: al cinema chiede di farla ridere.
«Sì, sempre. Fantozzi contro tutti l’avrò visto cinquanta volte, se vedo che lo danno in tivù mi fermo e lo riguardo. Lo so a memoria. Ma guardo anche Pozzetto, Banfi. E rido».
Le piace stare solo?
«Sì, me ne vado in montagna, al fresco. E stacco. Roma è un casino».
Anche per allenarsi?
«Devo uscire dalla città, schivo le buche, le ho memorizzate tutte. Parto dal Prenestino, vado verso Tivoli, Frascati, verso Zagarolo. Se voglio rilassarmi vado al Terminillo. Ma fuori stagione è dura. Michela, la mia fidanzata, dà le testate al muro».
In che cosa si sente romano?
«Rispetto ad altri prendo le cose con più allegria, sono leggero. Scherzo anche nei momenti seri».
Come si rilassa?
«Vado a pescare, magari nei laghetti artificiali. Anche a Ponte di Nona. Prendo le trote».
Che cosa l’ha sorpresa del dopo Giro?
«Sapere che anche a Roma nei bar la gente si era messa a parlare di ciclismo, e a guardare le tappe».
Lo ha detto anche durante il Giro: vorrei che anche da noi ci fosse la passione per il ciclismo che vedo al nord.
«Probabilmente è questione di tradizione. A livello amatoriale ci sono tanti che vanno in bici anche a Roma, ma la passione non è la stessa. Magari posso aiutare ad accenderla».
Che cosa ha capito? Che corridore è Valerio Conti?
«Pronto per le corse di una settimana e per le gare di un giorno, per le altre ancora no. In un grande giro potrei pensare alla top ten ma non mi piace tanto l’idea di arrivare decimo, preferisco puntare a una vittoria di tappa. E’ quello che mi aspetto da questa Vuelta».
In futuro vorrebbe puntare a un grande giro?
«Devo lavorare molto sulle salite lunghe. E sulle cronometro».
Per la prossima stagione cosa sogna?
«Vorrei provare qualcosa di diverso. Se la squadra è d’accordo mi piacerebbe fare le classiche delle Ardenne: Amstel, Freccia e Liegi».
In questi giorni se n’è parlato molto, ricordando Gimondi. E’ davvero così bella la fatica?
«I primi anni era più bello, adesso mi piace solo quando faccio fatica e realizzo che sto ottenendo qualcosa. Non so se avrei continuato senza risultati, sono uno ambizioso. Però non so come avrei potuto fare un lavoro normale, stare tutto il giorno davanti a un computer».
Ha raccontato che si emoziona guardando i filmati del ciclismo di una volta. Ha mai pensato che il suo sia uno sport anacronistico?
«Anch’io lo vedo che ci sono tanti vecchi a seguire le corse. Ma è perché una volta che ti ha preso, il ciclismo non ti lascia più. E’ come una morsa. E poi non si dice sempre che siamo un Paese di vecchi?».
dal Corriere dello Sport - Stadio