Se dovesse spiegare a un bambino il bello del ciclismo, gli direbbe che, in bicicletta, non si sentirebbe mai solo. “Il gruppo è una famiglia, una grande famiglia, una famiglia allargata, così allargata che non è possibile conoscere tutti gli altri, ma se ne condividono lo spazio, la passione, i gesti, i comandamenti, il linguaggio, soprattutto quello del corpo. Un po’ come uno stile, un po’ come una religione, un po’ come – appunto – una parentela. E questo dà un senso di appartenenza a un mondo”. Un mondo giramondo.
Damiano Cima è un giramondo. Ha corso negli Stati Uniti, dallo Utah al Colorado, in Cina, Giappone e Corea, in Francia, Belgio, Spagna, Croazia, Slovenia e – ovviamente – Italia, in Argentina, adesso in Turchia, e forse dimentica qualche stato, qualche nazione, qualche Paese, anche se i corridori, essendo il ciclismo un mondo, non conoscono divisioni, e non avrebbero neppure bisogno di un passaporto. “Semmai avremmo bisogno di un po’ più di calma. Perché andiamo e torniamo, in corsa non si vede nulla, sei concentrato sul mozzo di una ruota o su uno scorcio di strada, la minima distrazione può causare il massimo disastro”.
Venticinque anni, bresciano, lato Lago di Garda, sponda Lonato, Damiano viene da una famiglia (ciclistica) nella famiglia (del ciclismo): “Il nonno aveva una squadra di dilettanti, il papà è sempre stato appassionatissimo, quattro figli, due maschi e due femmine, io e Imerio giocavamo a calcio, finché prima lui, che aveva sette-otto anni, e poi io, che ne avevo 12, esordiente al secondo anno, abbiamo abbandonato il pallone per la bicicletta. E adesso siamo professionisti: un privilegio raro. Quanti riescono a tradurre la passione in una professione?”.
Se chiude gli occhi, e ricorda, “il primo episodio è una vittoria, la mia prima vittoria, in pista, cemento, a Dalmine, cielo aperto, in un’americana con Marco Ambrosi. La quintessenza della felicità”. Se chiude gli occhi, e immagina, “il secondo episodio è una caduta, tante cadute, così tante che la gente non può immaginare quante cadute ci siano in una corsa, moltiplicate tutte le corse, e sono cadute sfiorate, evitate, dribblate, saltate e, qualche volta, inevitabilmente, in cui si è coinvolti. Certe cadute si percepiscono prima nell’aria, magari quando si respira un eccesso di tranquillità, di immobilità. Certe altre non si fa neppure in tempo ad avvertirle che è ormai troppo tardi e non c’è più niente da fare, e ci sei sopra, sotto, dentro. E se levassi il mio body, mostrerei 200 cicatrici, oltre a due clavicole e un braccio fratturati”. Così, se dovesse spiegare a un bambino il brutto del ciclismo, gli direbbe che è il periodo in cui si sta fermi dopo una caduta. “Lì ci vuole costanza, tenacia, determinazione, quasi ostinazione, voglia di tornare in sella e rifarsi”.
Cima dice che il suo forte è proprio “la grinta, la determinazione”, il suo debole “la sensibilità, troppa, mi provoca nervosismo, e il nervosismo è uno spreco di energie mentali, e quindi anche fisiche. Per tranquillizzarmi cerco di stare vicino ai compagni, dentro la famiglia del ciclismo. Anche l’esperienza e l’abitudine aiutano”. Cima sostiene che il suo forte, in bicicletta, sono “le tappe mosse, a sprint ridotti”, il suo debole “le salite lunghe”. La salita non perdona, tant’è che in salita si fanno i test. Cima rivela che la sua salita di riferimento per fare il punto della situazione è “il Serle, oppure il Maddalena: e non c’è bisogno di computer per sapere in quali condizioni sono”. Mille sfumature, tra il bene e il male, tra l’allenato e il sovrallenato, tra il tranquillo e il nervoso, e non ci sono watt per certificarlo.
Qui al Tour of Antalya, dorsale 21, Cima si dedica alle volate di Giovanni Lonardi, sapendo che il dare è anche ricevere, e se non adesso, poi. Professionista dal 2017, finora ha collezionato tappa, classifica generale e a punti al Tour of Xingtai in Cina, tappa e secondo posto nella generale al Tour of China I, nel 2018. “Sogno la Milano-Sanremo, per il suo fascino di primavera, amo la Strade Bianche, per quell’atmosfera storica ed eroica, penso che il destino abbia il suo peso, la sua importanza, m’ispiro a un corridore come Paolo Bettini, per la grinta, l’istinto, la voglia, la caccia alla vittoria”. Caccia è una parola magica: “Da ottobre a dicembre, mollo la bici e prendo il fucile. Riserva: zona 5 di Mantova. Lepri. Ma possono stare tranquille: la mia mira è pessima. A me piace soprattutto il resto: stare fuori dall’alba al tramonto, camminare, respirare, ammirare la natura, guardare i cani che seguono le tracce, lo sparo è solo l’atto finale, e se va male, amen. Mi piace prendermela con calma, che è tutto quello che non posso fare sulla bici”.