Era corridore vero: passista, gregario da fatica, vincitore di una tappa al Giro d’Italia con una fuga infinita, Giro d’Italia 1975, ottava tappa, la Potenza-Sorrento, 220 chilometri con le salite di Pietrastretta, Agèrola e Faìto, di cui 188 al vento, il direttore di corsa e il direttore sportivo che lo pregavano di rallentare altrimenti avrebbe fatto saltare per aria la classifica, e anche gli spettatori.
Era uomo verissimo: marito, padre, lavoratore, costretto all’immobilità, sempre valorosamente pronto a ricominciare, a camminare e a vivere, con fede e fiducia, con volontà e valori, comunque con gratitudine e con – è una parola spesso dimenticata o, peggio, svalutata – bontà.
Una mostra su Marcello Osler. S’intitola “Vai Marcello! Vai campione!”. Fotografie e giornali. Le fotografie di una vita con Remo Mosna, quelle di Sergio Penazzo scattate proprio il giorno del trionfo al Giro, e quelle tratte dagli album di famiglia. E i giornali in cui le pedalate vennero tradotte in parole, il sudore in articoli, la resistenza in titoli. A Canezza (Trento), nel Museo degli attrezzi agricoli e artigianali, dal 5 al 21 aprile (dalle 16 alle 18), e all’inaugurazione (venerdì 5 alle 17) ci sarà anche Francesco Moser, che di Osler è stato amico e capitano.
Osler ha vissuto due volte. La prima era cominciata proprio a Canezza, Canezza di Pergine in Valsugana, dove si apre la Valle dei Mòcheni, ed era subito stata illuminata dalla bicicletta. Mentre pedalava inseguendo un autobus, Marcello venne notato da un dilettante: “Perché – gli domandò, stupito e ammirato – non corri in bici? Andavi a 60 all’ora”. La prima gita fu a Longarone, a vedere il disastro del Vajont. La prima squadra la Forti e Veloci di Trento, la sede in una baracca di legno dietro la birreria Pedavena. Le prime vittorie sulla strada, compreso un titolo regionale. E la prima lunga trasferta, in Toscana, in quattro in macchina, anche di notte, con una sola coperta. E Marcello, la mattina dopo, avrebbe vinto. Fino al professionismo, otto anni, con Sammontana, Brooklyn, Selle Italia e Sanson, e quel trionfo al Giro d’Italia. Gregario, caratterialmente, perché di Marcello ci si poteva fidare, aveva una parola sola e un cuore grande così. E dopo l’agonismo, passò da corridore a ciclista, nel senso di titolare di un negozio e di un marchio di bici, vendita assistenza riparazioni.
La seconda vita cominciò, inattesa, quando Marcello andò a fare un giro in bici con il figlio. Niente di impegnativo. Solo un giro in bici per andare a trovare amici e parenti. Poi, all’improvviso, un malore: giusto il tempo di chiedere aiuto, e Marcello crollò a terra, il volto diventò blu, e per 20 minuti non respirò più, il cuore da atleta, da corridore, da fuggiasco, non frenato o rallentato, ma fermo e spento. Quindi la resurrezione, alti e bassi, tanta forza di volontà, una incommensurabile quantità di coraggio e fede da Elena e dai figli, e la sua, fatta di poche parole e di molti intagli – la sua arte – nel legno.
Ma la mostra non sarebbe stata possibile, non così profonda, non così affettuosa, non così rispettosa, senza Mosna. Un altro trentino di poche parole e, lui, di moltissimi scatti. Mosna è un testimone straordinario. Il suo archivio colleziona vite, accumula gioie, moltiplica emozioni, ha il potere di prolungare attimi fino all’eternità. E in questa eternità, ecco ricomparire, finalmente, nuovamente, magicamente, il nostro amico Osler.