Peter Sagan nel 2023 come Fausto Coppi nel 1959. Parigi-Roubaix: l’ultimo spettacolo. Nell’anno del lungo addio, Peter Sagan (come Fausto Coppi) rivivrà con consapevolezza, gratitudine e forse anche nostalgia, quei 55 chilometri di pietre. E noi, sempre, con lui.
Coppi, la Roubaix, l’aveva già corsa quattro volte: dodicesimo nel 1949 (nell’unica edizione in cui, per un errore di percorso, ci furono due vincitori: il francese André Mahé, primo di una fuga a tre, ma nel finale su un percorso sbagliato, e suo fratello Serse, primo nella volata del gruppetto inseguitore), primo nel 1950 (davanti al francese Maurice Diot e Fiorenzo Magni), secondo nel 1952 (dietro a Rik Van Steenbergen e davanti ad André Mahé) e nel 1955 (dietro al francese Jean Forestier e davanti a Louison Bobet). Stavolta il suo era un atto di fede fisica, muscolare, anche mentale, anche spirituale. A vincere il belga Noel Foré (in 6.08’20”, a 42,760 di media) in volata sui connazionali Gilbert Desmet e Marcel Janssens, grazie anche a una moto che investì il gruppetto degli inseguitori fra cui Van Looy, quarto. Fausto fu il primo di un gruppetto a 7’35”. Quarantaquattresimo. Confuso tra gregari: Valdemaro Bartolozzi, quarantaseiesimo, Peppino Dante, quarantasettesimo, Roberto Falaschi, quarantanovesimo. C’era anche Roger Rivière, quarantottesimo. Più indietro, sessantaduesimo a 12’18”, Pippo Fallarini.
Per il mio “Coppi ultimo” (66thand2nd) andai a cercare quei gregari. Trovai Peppino Dante: “Rivedo Coppi nudo nelle docce del velodromo di Roubaix, quando ci scrostiamo dal fango. Magro, tirato, asciutto, la pancia piatta e una cassa toracica che sembra quella di un contrabbasso”. Dante era, come dicono gli spagnoli, un “aguador”. Fontane e fontanelle sono il suo regno. Le conosceva, le aspettava, le puntava. Scattava, frenava, si precipitava. Riempiva, si caricava, ripartiva. Oppure bar e osterie. Li intuiva, li vedeva, li puntava. Scattava, frenava, entrava. E rubava. Quel che c’era, c’era: bottiglie, fiaschi, bibite.
Trovai Bartolozzi, che conosceva Coppi dal Giro di Lombardia del 1950, la sua prima corsa da professionista, ma come indipendente nell’Atala, la sua futura squadra. “Stavo con i primi, poi cedetti, entrai nel secondo gruppetto, andai al traguardo. Il Vigorelli ribolliva di gente. E quando gli spettatori si accorsero che in questo secondo gruppetto c’era anche Gino Bartali, rimbombò un boato da brividi”. Bartolozzi mi descrisse quel Coppi del 1959: “La pedalata, meno armoniosa, meno leggera. La posizione nel gruppo, più defilata. La presenza nelle corse, saltuaria”.
Trovai Pippo Fallarini, gregario con licenza di vincere. Ha 88 anni, è vivo e lucido: “Ricordo il pavè, tanto e pessimo. Ricordo belgi e francesi, che quando attaccavano, voleva dire che stava per arrivare il pavè. Ricordo che, se ti giravi indietro, ti piombava addosso il gruppo, un’ecatombe. Ricordo che Mario Gismondi si arrabbiò con me perché sul pavé galleggiavo, ‘ma come fai?’, mi chiese, ‘datti da fare!’, gli risposi. Ricordo che ci contendevamo le banchine, che montavamo cerchi in legno, più flessibili ma più pericolosi, che foravamo noi ma anche le ammiraglie, tant’è che spesso l’ammiraglia non c’era e allora continuavamo a pedalare fino a distruggere la bici. Ricordo che si andava in treno a Parigi, bici al seguito o su un camioncino guidato dal meccanico, tre o quattro corse più la Roubaix. Ricordo che da Parigi alla partenza si facevano trenta chilometri in bicicletta, poi più di 260 di gara, e magari pioveva. Ricordo le docce al velodromo di Roubaix, sembravano quelle di un lager, l’acqua calda per i primi, fredda per tutti gli altri”.
Trovai Angiolino Piscaglia, altro gregario, maglia nera al Giro d’Italia 1957. Lui, di anni, ne ha compiuti 90: “A dormire a Parigi. In bici alla partenza. Freddo, pioggia, grandine. Ventagli. La foresta di Arenberg. Rimaniamo indietro. Coppi sussurrava: ‘Troppa fatica’. Lui resistette, io cedetti. Ma il camion-scopa era pieno. Rimasi in bici, seguii un gruppo di francesi e belgi che conoscevano le strade, saltammo sui marciapiedi, arrivammo al traguardo in bicicletta, ma per altre strade, e così non fummo classificati”.
Il giorno dopo, sulla “Gazzetta dello Sport”, così Gianni Cerri commentò la Parigi-Roubaix: “Ma non vogliamo passare sotto silenzio la prova di Fausto Coppi, che ha avuto la costanza di condurre a termine una gara tanto massacrante, con un coraggio che può servire, ancor oggi, di esempio per molti”. E a Bruno Raschi che gli chiedeva perché, Coppi rispose: “Felice di essere nel teatro del ciclismo, anche se ormai fra le quinte”.