Continua a splendere l’arcobaleno sul Wolfpack. Dopo Julian Alaphilippe è Remco Evenepoel a vestire la maglia iridata e al suo fianco anche la prossima stagione avrà il “nostro” Andrea Bagioli. Il 23enne valtellinese, terzo poche settimane fa al Gp Montreal alle spalle di Tadej Pogacar e Wout van Aert, al mondiale di Wollongong in cui era una delle punte designate della Nazionale di Daniele Bennati ha vissuto una giornata no (al traguardo 46° a 3’01” dal vincitore, ndr), ma pensa già a riscattarsi.
Cosa ti resta della trasferta australiana?
«Un po’ di amaro in bocca perché sono stato al di sotto delle aspettative. Dopo il piazzamento in Canada mi attendevo di avere gambe migliori invece ho sofferto tanto, soprattutto all’ultimo giro. Ho faticato ad assimilare il fuso orario: dal Canada sono rientrato in Italia per poi volare in Australia, ma ho avuto una decina di giorni per abituarmi alle 8 ore di differenza con il nostro Paese e non posso dare la colpa a quello. Semplicemente ho avuto una giornata storta. A mio avviso, la Nazionale italiana si è ben comportata. A saper prima che il numero di Evenepoel sarebbe riuscito uno tra me, Bettiol e Trentin avrebbe seguito Remco, ma a posteriori è tutto più facile e questi ragionamenti ormai lasciano il tempo che trovano. Girano un po’ le scatole per la medaglia sfuggita a Lorenzo Rota nel finale, ma si vince e si perde per attimi e in una prova secca e complessa come il mondiale è difficile prevedere come andranno le cose».
Il CT Bennati è da promuovere?
«A me è piaciuto. Ragiona ancora come un corridore, avendo smesso solo da tre anni sembra uno di noi, è uno di noi, fa parte del gruppo. In gara senza radioline i tecnici non possono esprimersi appieno, ma purtroppo le regole al momento sono queste. Io personalmente le cambierei: non ha senso vietarle ad Europei e Mondiali, quando in tutte le altre competizioni dell’anno le usiamo. La domenica che ha incoronato Remco, per esempio, è stata un gran casino. Ad un certo punto nessuno sapeva più quanti corridori erano in avanscoperta, ne riprendevamo 10 alla volta, non si capiva quanti ne erano rimasti davanti, tanto che sia Laporte (alla fine d’argento) che Van Aert (4°) hanno dichiarato che non pensavano di sprintare per il podio».
Indossare la maglia azzurra è...
«Un’emozione, un piacere e una responsabilità. Sai che hai una Nazione che ti guarda e senti l’orgoglio di rappresentare il tuo Paese. Oltre a un campionato continentale, da Imola2020 ho disputato tre mondiali consecutivi tra i grandi e ogni volta è stata un’esperienza importante e indimenticabile. Da questa sono tornato a casa con la convinzione di far parte di un bel gruppo. Nei giorni trascorsi dall’altra parte del mondo si è creata una forte amicizia tra noi corridori, con Battistella e Bettiol che tenevano alto l’umore della truppa con le loro battute, e Trentin che con la sua esperienza sia prima che durante le gara è stato un punto di riferimento imprescindibile».
Ti aspettavi che vincesse Remco?
«Sinceramente no. Sapevo che il Belgio aveva quelle due carte e immaginavo che lui avrebbe provato ad anticipare, però non pensavo che arrivasse fino alla fine tutto solo. Il giorno dopo l’impresa l’ho incontrato in aeroporto con Serry e altri compagni di club, abbiamo scambiato due chiacchiere, ovviamente gli ho rinnovato i complimenti che già gli avevo inviato sulla chat whatsapp della squadra (si chiama The Wolfpack, il branco di lupi, ndr). Sembrava tranquillo e giustamente felice. Non sarà facile per lui gestire tutta l’attenzione che lo attende, come Vingegaard dopo il successo al Tour de France, ma a differenza di Jonas lui è già abituato a stare al centro dell’attenzione».
In effetti da quando pedala viene paragonato ad Eddy Merckx.
«Sì, in Belgio il ciclismo è religione. Ho visto come è stato accolto al rientro a casa e letto che domenica 2 ottobre sarà osannato nella piazza del Mercato di Bruxelles da almeno 10.000 persone. Già quando aveva vinto da junior la maglia iridata ricordo che le tv e i giornalisti erano andati fuori dalla scuola della fidanzata (Oumaima Rayane che Remco sposerà venerdì 7 ottobre, ndr) per intervistarla, quindi lui e i suoi cari sono già allenati anche alla pressione mediatica. Aumenterà ulteriormente, ma sono pronto a scommettere che riuscirà a reggerla tranquillamente. Ha grande testa, riesce a restare concentrato sui suoi obiettivi e fa parte di una squadra che sa come trattare un campione del mondo».
Cos’ha in più degli altri?
«Beh, il motore (sorride, ndr). Quello già ti facilita la vita. Se sai che hai le doti per realizzare azioni che la maggior parte del gruppo si sogna, tutto è più semplice. In più è molto convinto dei suoi mezzi. A me ha fatto effetto quando, appena arrivato in squadra, ho visto come si comportava. Si vedeva che proveniva dal calcio. Ha avuto fin da subito le idee chiare e non ha mai fatto nulla per nasconderlo, anche di fronte a compagni più esperti. Visto che vince e come vince, ha ragione lui. Anche in quel famoso Lombardia disputato il giorno di Ferragosto 2020 mi aveva lasciato a bocca aperta perché nella riunione pre corsa ci aveva detto che avrebbe attaccato, dimostrando di sapere esattamente come muoversi in gara e di non avere alcun timore reverenziale verso i big che già avevano vinto in passato la classica delle foglie morte. Da un giovane non ti aspetti tutta questa sicurezza».
Vederlo vincere così “facilmente” è deprimente o esaltante?
«Deprimente assolutamente no. Anche quando corriamo da avversari perché ognuno rappresenta la propria Nazione, nei suoi confronti ho rispetto e stima, non provo invidia o cattiveria. Come per tutti gli altri campioni con cui ho il piacere di confrontarmi. Magari non mi esalto come un tifoso davanti alla tv, ma persino l’agonista più combattivo deve ammettere che quel giorno a Wollongong è stato il più forte e quello che si è trovato nella situazione migliore per esprimere tutto il suo potenziale. E se da fuori sembra che abbia vinto facilmente vi assicuro che non lo è stato, se l’è dovuta sudare e se l’è strameritata. Tutti sapevamo che ci avrebbe provato a 4-5 giri dalla fine ma in pochi lo hanno seguito e nessuno è riuscito a resistergli».
Quest’anno è stato in grado di vincere anche la Vuelta. Il tuo debutto al Tour è stato più complicato.
«Nel 2022 Remco ha vinto la Liegi-Bastogne-Liegi, la Clasica San Sebastian, la maglia rossa e quella iridata. Non possiamo che toglierci il cappello per i risultati che è riuscito a ottenere in così poco tempo dall’infortunio rimediato nell’estate 2020. Io alla Grande Boucle purtroppo non ero al top, quindi ho faticato tanto. Nel corso della prima settimana non sono stato bene, ho sofferto per problemi di stomaco e, non riuscendo a mangiare, è stata una vera sofferenza. Peccato perché non avendo in squadra un leader designato per le tappe collinari come Alaphilippe avrei potuto ritagliarmi il mio spazio, ma in quelle condizioni c’è stato poco da fare. Durante la tappa partita da Losanna volevo addirittura fermarmi, eravamo partiti a tutta e io mi sentivo uno straccio, ma dall’ammiraglia mi hanno convinto a non mollare. Il giorno dopo c’era in programma il riposo, che per me è stato quanto mai prezioso. Passato il malessere mi è rimasta la stanchezza. La condizione non è mai stata delle migliori, ma la soddisfazione di arrivare sui Campi Elisi è indicibile. Portare a termine un grande giro dicono che cambi il motore di un corridore, spero tutta la fatica accumulata verrà ripagata nei prossimi anni. Non sono un campione nato pronto come Remco e gli altri fenomeni che stanno caratterizzando quest’era del ciclismo, ma continuo a lavorare fiducioso nel mio piccolo di potermi togliere qualche bella soddisfazione».
Quanto è diverso Remco da chi lo ha preceduto?
«Parecchio. Sia Evenepoel che Alaphilippe sono due talenti cristallini, ma il primo è molto più serio mentre Loulou è decisamente più “sciallo”. Con Remco ho corso solo qualche gara nel 2020 al mio primo anno nella massima categoria mentre nelle ultime due stagioni ci siamo trovati solo in ritiro. Ricordo i training camp a Calpe, in Spagna, a inizio preparazione, in cui Remco è il primo a cercare e lanciare la sfida in allenamento. Il primo a rispondergli di solito è proprio Julian, nelle garette che imbastiamo tra di noi sono i più agguerriti. Non si assomigliano caratterialmente né come tipo di atleta, ma ognuno a suo modo è un fior di campione».
Meglio averli in squadra che contro.
«Eh, già. Correre nello stesso team del campione del mondo è una responsabilità in più perché vuol dire avere gli occhi puntati sulla squadra, dover correre davanti e fare la corsa. Siamo abituati e siamo felici di avere questo “peso” per altri 365 giorni».
da tuttoBICI di ottobre