Dal mondo immobile è uscito Vincenzo Nibali. Quello che gioca a chi arriva primo anche quando c'è da presentarsi a tavola per mangiare la pizza, quello che balla trash in pigiama prima di fare colazione. Che sfida i suoi compagni di allenamento a chi arriva in cima (e loro per non dargli un dispiacere nascondono i dati quando vanno più forte di lui). Che senza corse è tornato bambino, l’Enzino che andava sull’Etna in «mauntebbai». Che aspettava l’uscita dei film per vederli sul divano con sua sorella e suo fratello, prima che mamma e papà li portassero in negozio dove li davano a noleggio, «noi tre li vedevamo in anteprima, mi ricordo The mask, la trilogia di Ritorno al futuro, i film di Robin Williams». Vincenzo che appena ha un momento libero smonta tutto quello gli si para davanti, figuriamoci in due mesi di quarantena, «ho smontato e rimontato qualunque cosa, in casa, in garage, solo di me non avevo niente da smontare, niente da rimettere insieme, sono abbastanza tranquillo».
Dai social è venuta fuori un’immagine diversa di lei. i tifosi, sorpresi, hanno scritto: Nibali è simpatico. E’ colpa nostra che non siamo mai riusciti a tirare fuori questo suo lato?
«Non lo so. Magari la gente pretende qualcosa di più da me quando invece sono concentrato alle gare e non ho tempo per ridere e scherzare. Non è sempre possibile dare tutto di sè, bisogna dividersi. Quando sono in tv mi sento di essere più formale, istituzionale, sui social invece sono io, quello che sono a casa, con i miei amici, quello che magari gli altri non conoscono. Normalmente è impossibile farlo venire fuori, di carattere io sarei così, informale, ma incontro tantissime persone e non so mai cosa vogliano da me, se basta un selfie o invece pretendono di entrare nella mia vita».
Nibali quello vero è il numero uno anche nel cazzeggio. I suoi balletti sono ormai leggendari.
«Quando parte il momento ignorante perché no? Quello sono io, mi piace ridere, scherzare, sfottere. Mi piacciono le auto, le moto, la pista. Sono un po’ pazzoide, un artista».
C’è qualcosa che non ha mai raccontato di lei?
«Da ragazzino ero un teppista, nella bici ho trovato il mio sfogo, la bici mi ha responsabilizzato, mi ha fatto crescere. Ero terribile, ero quello che se le inventava tutte, scappavo da scuola, andavo sempre a cercare rogna. Le prendevo e le davo».
Emma fisicamente le somiglia sempre di più.
«Anche come carattere. Ogni tanto ha anche lei il momento Nibali, quando fa la matta. E’ un’incosciente. Ha due bici: una normale, e una a spinta senza freni: con quella si lancia a tutta in discesa. Ma io cosa posso dirle: vai piano? Io? E poi la vedo, nella discesa di casa, me ne accorgo che parte ogni giorno un metro più su per darsi più spinta, ma perché la devo frenare, ha già capito come si guida e come si frena, sfrutta la pendenza. L’altra sera strillava dalla paura, ho riso come un matto».
Le piacerebbe che scegliesse il ciclismo?
«Nì. Per ora ha lasciato la danza e fa pattinaggio su ghiaccio. Se decidesse di correre in bici non sarebbe un problema ma preferirei un altro sport, il ciclismo è troppo duro, pretende troppi sacrifici, troppe rinunce. Mi dicono: tu però guadagni tanto. Ma solo io so a cosa ho rinunciato, ho lasciato tutto a quindici anni per correre, e sono anni che nessuno mi ridarà indietro».
Vi ha mai chiesto un fratellino?
«No, anzi. Se glielo chiedi lei risponde assolutamente no, sta bene così. Vuole continuamente coccole, mi ricorda mio fratello alla sua età, io invece sono tutto diverso, un gatto selvatico, di quelli che te li prendi in braccio e saltano via».
Di solito chi vince non è amatissimo dai colleghi. Lei fa eccezione.
«Forse perché ascolto tutti, parlo con tutti, sono attento alle cose speciali di ognuno. Ho tanti amici nel ciclismo, quello che ho frequentato di più è Ulissi. Cataldo mi piace perché ha un carattere tranquillo, pacato. Anche Pozzovivo, che però ha tratti pazzoidi come me: è preparatissimo su tutto, se ho bisogno di un consiglio chiedo a lui. Nell’ultimo periodo mi vedo molto con Bettiol, che è molto simile a me come orari, siamo tutti e due lenti. Lui è il talento che si deve esprimere, ha una testa che bisognerebbe prenderlo a bastonate. Ma va forte, anche in salita»
Quando uscite con Cataldo vi portate anche la cioccolata con i biscottini.
«Solo in mountain bike. Quando vai per i boschi è difficile trovare una fontanella, e gli alpeggi adesso sono chiusi. Ci portiamo lo zaino con l’occorrente per guasti e forature, e lui ci mette anche il thermos e la merenda».
Senza corse, ha recuperato il gusto dell’uscita in bici?
«Non è il momento di allenarsi a tutta, ci stiamo mantenendo attivi per il rientro. Sperando che si possa ricominciare».
Questa stagione parziale le allungherà la carriera di un anno?
«Smetterò quando sarò stanco. Non prima».
I pensieri pesano in bicicletta?
«No, anzi, in bici sparisce quasi tutto, hai la mente più pulita. Ero così anche quando ero un piccolo teppista iperattivo: la bici mi calmava, tornavo stanco morto».
Le piacerebbe tornare a quando aveva quindici anni e tutta la strada ancora da fare? Ha nostalgia di quell’Enzino?
«A quindici anni no. Ma a venti-venticinque ci tornerei: ero libero, senza responsabilità, vivevo da solo ma avevo già qualche soldo in tasca, facevo quello che mi pareva. E’ stato un momento molto bello».
Che cosa le manca delle corse?
«Le corse. La sfida. Ogni tanto facciamo qualche simulazione, una gara, una salita a tutta. L’altro giorno ho sfidato Ulissi su una salita dura, oltre il 15%, nessuno dei due voleva stare dietro, siamo arrivati in cima che eravamo blu».
Che cosa non le manca?
«Le valigie».
E’ preoccupato per il futuro del mondo?
«Non lo so. Me lo domando ma non so rispondere. Spero che la ricerca faccia progressi, che si trovi una via d’uscita».
E per il futuro del suo mondo, il ciclismo?
«La risposta è la stessa. Indubbiamente se lo sport non potesse ripartire sarebbe un problema».
Ha detto al ministro Spadafora che questa pandemia dev’essere l’occasione per cambiare le nostre abitudini.
«Mi riferivo a quello che è stato in fatto in Inghilterra: il bonus per le bici ha provocato un boom. E lo stato ha riconosciuto un bonus in busta paga a chi va al lavoro in bicicletta, sul presupposto che chi è in salute costa meno alla collettività».
Rimane la paura, le strade non sono sicure.
«Ci vogliono leggi che proteggano gli utenti più deboli, non si può più aspettare».
Ha partecipato all’ultimo direttivo dell’Accpi. Qual è la sua posizione nei confronti del sindacato corridori?
«Dovendo proteggere una categoria un sindacato dev’essere prima di tutto forte: appoggiare i corridori nelle contrattazioni, tutelare soprattutto i più deboli, che non devono esporsi, avere una voce sola, che si faccia sentire quando ci si confronta con le istituzioni. Purtroppo siamo una categoria debole, non abbiamo diritti di immagine, non godiamo dei diritti televisivi. Quando sei debole la tua voce non si sente».
Alcuni suoi colleghi, da Bardet a Dumoulin, si sono lamentati per l’assenza dei controlli antidoping. Evidentemente non si fidano.
«Io sono onesto, mi fido dei miei colleghi, voglio pensare che siano tutti onesti. Noi tutti abbiamo cambiato il ciclismo in meglio, voglio pensare che siamo tutti a posto. Poi, come si dice, la mamma degli imbecilli è sempre incinta».
Quanti grandi giri pensa di poter correre ancora? Quanto è logorante preparare una corsa a tappe con l’obiettivo della classifica?
«E’ un calcolo che non ho mai fatto. In realtà è diventato routine, si tratta magari di aggiungere qualcosa di nuovo ogni anno. E’ la mia quotidianità, quando mi stancherò di questo mi stancherò di tutto. Purito Rodriguez mi ha raccontato che a fine carriera gli pesava anche scendere a colazione».
Le piacerebbe correre una Roubaix prima di smettere?
«E’ l’unica che mi manca tra le belle, ci potrebbe stare. Anche se non è adattissima a me, e non l’ho mai corsa perché non arrivava nel momento giusto del mio calendario. Però sì, mi piacerebbe provare».
Quando vince Nibali è perché gli altri sono caduti. Quando non va, vorrebbero che si ritirasse perché non è da Nibali correre in fondo al gruppo. Ma non fa mai bene?
«Credo che sia un po’ una cosa degli italiani questa. Un po’ è gelosia, un po’ invidia. Col tempo ci ho fatto l’abitudine, è qualcosa che ho sviluppato piano piano: ho capito che troverò sempre chi mi fa un complimento e chi mi insulta. Mi danno anche del dopato a volte, il mondo è bello perché è vario. In parte ho imparato a fregarmene, a volte penso che dovrebbero leggere la Bibbia, chi è senza peccato...».
E’ credente?
«Sì, anche se non praticante. Però mi piace ascoltare, anche chi mi critica. Per capire. Vado su Facebook, leggo e qualche volta intervengo: chiedo di spiegarmi perché ce l’hanno con me, sono veramente interessato, giuro. Non si sa mai, magari posso anche imparare qualcosa. Ma in genere rimangono a bocca aperta, non credono che sia davvero io».
dal Corriere dello Sport-Stadio del 14 maggio 2020