La notizia deflagrò come una bomba ed echeggiò come una campana. Solenne, profonda, cupa: a morto. Non ci si poteva credere. Perché lui era giovane (45 anni, ma vissuti fra le biciclette si dimezzano) e teneva famiglia (moglie e due figli, più l’intera famiglia allargata e allungata, una comunità quella del ciclismo), perché era una domenica mattina e di domenica mattina non si può e non si deve morire, perché il fatto era, anzi, andava, anzi, viaggiava contro natura. Non ci si poteva credere. Quante volte abbiamo dovuto chiederne la conferma, come se si trattasse di un incubo, quando basta aprire gli occhi, fare mente locale e poi scacciare le nuvole, la tempesta, l’apocalisse.
Fu proprio l’apocalisse quando Franco Ballerini, il 7 febbraio di dieci anni fa, si schiantò durante un rally vicino a casa sua. Da navigatore, stava leggendo e interpretando il percorso. La macchina non lo seguì, non gli obbedì, l’impatto fu inevitabile, agli occhi di un profano di automobilismo e di un fedele del ciclismo non sembrava assassino, eppure si rivelò estremo, terminale, fatale. Quattro ruote non furono sufficienti per mantenere quell’equilibrio che le due, da ragazzo a uomo, da corridore a tecnico, da discepolo ad apostolo, gli avevano regalato come una passione, una professione, una missione.
Prima fu la tragedia: la tragedia della morte. Poi fu il dramma: il dramma di Sabrina e dei figli Gianmarco e Matteo. Poi fu il funerale: che durò molto, moltissimo, infinitamente più delle funzioni religiose e civili. Poi fu lo strazio: quello di Alfredo Martini, che qui perse quel figlio che Elda, oltre a Silvia e Milvia, non gli aveva dato forse perché sapeva che sarebbe arrivato così. Poi fu il lungo, lunghissimo, anche stavolta infinito addio che non solo Franco Vita e Marco Mordini, i suoi autisti angeli custodi, ma tutti, proprio tutti, dal presidente della Federazione Renato Di Rocco al più umile degli appasionati di corse e corridori, non riuscivano a dargli. E che non riescono, che non riusciamo a dargli. Perché “il Ballero”, un po’ qua e un po’ là, un po’ su e un po’ giù, un po’ misteriosamente e un po’ miracolosamente, c’è. Il luogo dell’incidente si chiama Case al vento: e, a pensarci bene, non poteva chiamarsi diversamente, perché il vento era la sua casa, prima quello creato da passista, poi quello disegnato da commissario tecnico della nazionale italiana.
Curriculum e palmares – Roubaix e Mondiali, squadre e la Squadra - si possono trovare in tutti gli archivi. Quello che rimane, che si trasmette, che si tramanda, quello che risuona ed echeggia, quello che non morirà mai è l’umanità di Franco. Da Martini aveva compreso, sposato ed ereditato la capacità di parlare con tutti, dal presidente della Repubblica al bambino, alla panettiera, al pensionato, perché presidente della Repubblica, bambini, panettiere e pensionati erano (sono) il popolo del ciclismo. E lui era popolare nel senso che spopolava, faceva parte del popolo, era aria (vento), era terra-terra, era soprattutto strada, era un uomo di strada. Sapeva essere dovunque e comunque, sapeva parlare, e prima ancora sapeva ascoltare. Guardando negli occhi. Guardando nell’anima.
Non era un santo, “il Ballero”. Avrà avuto i suoi difetti, avrà commesso i suoi peccati, avrà oltrepassato i suoi limiti. Quel rally, per esempio. Che bisogno c’era di farlo, tra i presentimenti di Sabrina e le ammonizioni di Alfredo, facile dire adesso che allora avrebbe dovuto spegnere, una volta tanto, quel fuoco che gli ardeva dentro, come succede a tutti (quasi tutti) quelli abituati da una vita a cominciare la domenica all’alba e sfidare (sfidarsi) in una gara, in un romanzo, in un’avventura. Ma non c’erano gare di ciclismo, quel 7 febbraio, se non dall’altra parte del mondo. E così Franco morì.