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L'ORA DEL PASTO. OLIMPIADI, GIORGIO BOCCA E QUEL GIORNO A MONACO, NEL 1972
di Marco Pastonesi | 11/08/2024 | 08:18

La prima volta a Tokyo, nel 1964. La seconda a Monaco, nel 1972. Giorgio Bocca ci andò “con una gamba ingessata che lasciava una scia bianca sull’asfalto. Ma nessuno a Monaco la vedeva in quei giorni. Non avevamo trovato posto in albergo, stavamo da frau Elisabeth, un’affittacamere gentile: il giorno del blitz dei feddayn alla villetta degli atleti israeliani la grande macchina dello sport faceva una pausa, nulla era in programma e io iniziai così la mia corrispondenza precotta: ‘Oggi Olimpia riposa’. Così partimmo in auto, con il piedone ingessato, per una visita a Salisburgo. Avremmo dovuto capire che era accaduto qualcosa di forte perché ai caselli dell’autostrada le radio sembravano impazzite e così i casellanti che non guardavano i soldi del pedaggio e non rispondevano alle richieste d’informazione”.

Bocca raccontò i suoi giorni olimpici non solo sul “Giorno”, ma anche in “E’ la stampa, bellezza!” (Feltrinelli, del 2008), e già anche in un pezzo per il mensile “Abitare” (del novembre 1983). “Tornammo a Monaco verso le 17 e frau Elisabeth aveva un’aria stravolta, non riusciva quasi a parlare, mi mise fra le mani un messaggio arrivato dal ‘Giorno’. Era di Gaetano Afeltra e diceva: ‘Hai tutta la prima pagina’. Telefonai al nostro ufficio le cui finestre davano sul villaggio olimpico: così scoprii cos’era successo. Gianni Brera, il capo della nostra redazione, si negò e mi fece sapere che stava facendo il bagno. Non ricordo chi rispose al telefono. Ricordo il suo imbarazzo nel dirmi che Brera non mi aveva cercato e che aveva già dato disposizioni perché coprissero il servizio. Sapevo che era un duro ma non fino a quel punto, sapevo che mi considerava un intruso, un cocco del direttore, ma non che mi facesse fare un buco da licenziamento in tronco. Nella distribuzione dei servizi cercava la provocazione ma avevo deciso di far finta di non capire. Arrivava in sala riunioni indossando una vestaglia di seta e disponeva: ‘Tu Fossati vai alla finale dei cento, tu Signori al nuoto e tu, diceva a me, magari vai a una partita di hockey su prato’. Io andavo dove mi pareva accompagnato dal mio amico Bolchi che aveva un’officina metallurgica in Milano ed era venuto a Monaco senza un biglietto ma era alto uno e novanta, mostrava il tesserino del tram e i tedeschi buoni dell’Olimpiade lo lasciavano passare. Arrivai nel nostro ufficio che cominciava a far notte. La palazzina dell’attentato era proprio davanti la nostra finestra, i terroristi se n’erano già impadroniti e avevano chiuso le ante delle finestre. Ogni tanto uno usciva per dare un’occhiata alla strada dove la polizia aveva messo i suoi posti di blocco. Finalmente Brera si degnò di comparire e di mostrarmi la telescrivente che stava vicino alla finestra come se l’avessero messa lì apposta per una cronaca cantata. Tutto era assurdo ma tutto si svolgeva con la precisione e il silenzio di certi incubi. Mancava solo chi mi portasse le notizie ma apparvero come mandate dal Signore, la Castellina del ‘Manifesto’ e la Lombardi, la compagna di Guido Vergani. Entrambe sicure che io sapessi tutto e che le avrei aiutate per i loro servizi, ma appena capirono che non sapevo niente e che contavo sul loro aiuto si misero al lavoro, instancabili a far la spola fra il mio ufficio e la strada dove si cacciavano nella ressa dei curiosi continuamente caricata dalla polizia. Mi sentivo come un re Artù servito da quelle straordinarie paladine dell’ordine del giornalismo. E la monumentale telescrivente era come un organo da cui ricavavo suoni maestosi anche se era la prima volta che ne adoperavo una. Ma le telescriventi hanno questo di buono, che scrivono da sole e ti trasmettono sicurezza. Ero in trance, scrivevo una pagina dopo l’altra e ogni tanto mi accorgevo che una delle mie aiutanti mi osservava di spalla, con ammirata partecipazione e il cumulo delle cartelle saliva e l’intera prima pagina del ‘Giorno’ si riempiva, e vedevo Afeltra che le mandava in tipografia pensando a uno dei suoi titoli destinati alla storia del giornalismo per lo stupore ammirato di Dino Buzzati e di Emilio Radius che erano al ‘Corriere’ con lui quando cadde Mussolini e la gente voleva dar fuoco alla redazione e lui uscì sul balcone e finì che lo applaudirono”.

Bocca era un fuoriclasse: “Che notte a Monaco di Baviera: alla luce dei fari della polizia i terrazzini della palazzina ogni tanto si animavano per apparizioni di cui non si capiva la trama ma che era una trama di terrore e di morte: un corpo trascinato fuori da una finestra, lampi di spari, ombre che si inseguivano, alcuni pullman in arrivo, forse quelli chiesti dai terroristi per raggiungere l’aeroporto. Sì proprio loro, il massacro si spostava e si allontanava dalla nostra ‘finestra sul cortile’. Spegnevo la telescrivente, mandava ancora alcuni lampi e un ultimo sfrigolio dal suo ventre d’acciaio e finalmente appariva anche Brera a complimentarsi e a bere un whisky assieme alle mie aiutanti”.

Bocca non faceva sconti, neanche su Brera: “Indossava un accappatoio bianco, era un tipo geniale e bizzarro, uno nato e cresciuto a San Zenone, uno dei villaggi in riva al Po, dove la noia del fiume che passa sempre eguale viene bucata. Brera diceva di essere di origini ungheresi, aveva fatto il paracadutista ed era un grande ammiratore delle stirpi nordiche. Un suo redattore giurava di averlo visto fermo davanti a uno specchio mentre diceva torvo: ‘Perché non sono nato tedesco?’”, “Mi guardava come uno nato in riva al Po guarda uno che è nato in riva alla Stura di Demonte, uno dei cento affluenti che non si sa perché scendano verso la piana invece che verso il Mar Ligure”, “Ma anche lui si portava dietro quel buon uomo di grande talento che la provincia sforna”.

foto tratta da youtube

 

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