Non figurava nella lista ufficiale dei giornalisti accreditati alle Olimpiadi di Roma 1960. Ma lo sport lo appassionava, dal calcio all’atletica, dal ciclismo alla boxe. E quando Maria Antonietta Macciocchi, direttrice di “Vie Nuove”, gli domandò, quasi senza speranza, se volesse scriverne per il suo settimanale, Pier Paolo Pasolini la sorprese e le rispose sì (per saperne di più: “Quando giocava Pasolini” di Valerio Piccioni, Limina, del 1996).
Il primo pezzo, pubblicato sul numero del 3 settembre, fu sulla cerimonia di apertura dei Giochi. Pasolini lo scrisse con onestà e senza retorica, con colpo d’occhio estetico e battiti di cuore sentimentali, una testimonianza che con il tempo conquista più valore: “A dire il vero, mi aspettavo, lungo i viali che portano allo stadio Olimpico, il caos delle partite di calcio, il solito calore delle domeniche calde, con la nota passione, vivace, convenzionale e plebea. Niente, invece: intorno a me camminava con calma, e quasi in silenzio, una folla del tutto nuova: i vestiti insieme più vivaci e modesti dei nostri, le facce e i corpi meno belli ma più sani, i sorrisi senza ironia e senza volgarità, ma anche un po’ senza vita. Erano quasi tutti stranieri: tra loro galleggiava la testa di qualche romano, sperduto, col sorriso un po’ spento tra le labbra, come appunto deve essere un romano all’estero, con il suo estro come fossilizzato e fatto cosciente, e perciò falso, vecchio. I gelatari gridavano ‘Ice cream!’”. Pasolini non fa sconti: “E la cerimonia comincia. L’inno di Mameli, l’arrivo di Gronchi. Questa cerimonia si divide in due parti, ben diverse e distinte: la prima bella, e in certi momenti commoventi; la seconda brutta, e addirittura quasi spiacevole”. La prima parte riguardava la sfilata delle delegazioni di atleti (“Bastava il nome del cartello che li precedeva, e le loro facce, quasi sempre umili, di gente modesta, spesso povera, perché l’intero loro mondo fosse evocato. Ed erano brani di storia contemporanea, vivi come brandelli di carne, sorprendenti e strazianti”); la seconda si riferiva all’intervento del ministro Andreotti (“Credo che sia difficile immaginare un discorso più retorico e provinciale del suo”).
Il secondo pezzo, pubblicato su “Vie Nuove” del 10 settembre, fu di ciclismo: il ritratto del nuovo campione olimpico nella prova su strada. Tutti si aspettavano che fosse un italiano, magari quel Luigi Trapé da Montefiascone già oro nel quartetto della cento chilometri, invece il vincitore era stato Viktor Kapitonov, Unione Sovietica. Il giorno dopo la gara – era il 31 agosto – Pasolini lo incontrò, a cena: “E’ un giovanotto secco, alto, caldo di energia fisica, timido. Le sue grandi mani ossute toccano con la grazia della goffaggine i piatti e i cibi del ristorante romano, e il suo sguardo è quello di un adolescente. Ogni volta che apre bocca mi pare che debba dire una frase friulana. Questa, del resto, è un’impressione che avevo sempre a Mosca, benché Mosca sia un’enorme capitale, e il Friuli, invece, sia tutto campagne e paesetti. Kapitonov mi pare un mio amico di quando stavo lassù: il biondo dei capelli è quello, e anche come sono pettinati, lisci alle tempie e gonfi al centro, di un ciuffo ordinato e allegro. Mi sembra assurdo che per parlare con lui mi debba servire un interprete”. E con l’interprete, Pasolini accompagnò Kapitonov nella Borgata Gordiani, sulla Prenestina: “Lontanissime, splendono le luci della Roma olimpica. Non dormono, no, alla borgata: se ne stanno, esclusi dalla città, come rintanati tra le loro casette”.
Per il terzo e ultimo pezzo Pasolini tornò all’Olimpico, stavolta per l’atletica, e scoprì “di essere un pessimo spettatore di gare atletiche”, confessò “so che questo può dispiacere”, precisò “pessimo spettatore di gare di atletica pura, quella ideale, quella per cui si fanno le Olimpiadi vere”, e si spiegò: “Mentre la corsa e il lancio erano nell’antichità dei fenomeni necessari anche fuori dallo sport, nella vita quotidiana, nella guerra, la loro purezza era relativa, e la loro bellezza si basava sulla necessità. Oggi, pian piano, nulla di ciò che è fisico è necessario, dato che tutto è stato sostituito dalla macchina: e lo sport è diventato lentamente, quanto a necessità, un puro fatto igienico: e sopravvive soltanto, direi, perché sfoga certi istinti aggressivi e competitivi, di predominio, che nell’uomo moderno non si sono ancora spenti”.
Proprio lì, all’Olimpico, in tribuna, Pasolini scorse Alberto Moravia e Elsa Morante: “Moravia, guardando l’enorme timballo di folla, come lui lo chiama, ammassato tra Monte Mario e il Tevere – visione a suo modo non priva di bellezza – mi diceva della piccolezza dello stadio di Olimpia, tra i monti brulli e deserti: non trovava parole per descrivere quella piccolezza”. Pasolini amava il paradosso e ribaltò il pensiero di Moravia: “Una cosa stupenda. Perfettamente umana. La vera grandezza è sempre unita alla piccolezza".