Quando salì sull’ammiraglia della Ghigi, una vecchia Alfa Romeo 1900 decapottata, e poté finalmente guardare la gente dall’alto verso il basso, e finalmente essere al centro della strada, e finalmente sentirsi al centro dell’attenzione, irradiava pura felicità. Non era l’implacabile sole del 23 giugno 2022 a illuminare lui, ma lui a illuminare la festa di Mezzogoro nel Ferrarese. Lui, Franco Canciani, uno degli ultimi testimoni di quella squadra che, fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, scrisse pagine di ciclismo.
E’ morto stamattina, Canciani. Aveva 86 anni. Da professionista era stato un incompreso: un solo anno, il 1961, senza grandi risultati. Ma al ciclismo era legato (si era legato) per sempre. Di pelle e di spirito con l’anima e con il cuore, una passione trasmessa anche a figli (Leonardo, direttore sportivo dell’Androni) e magari nipoti. Guardava, leggeva, commentava, frequentava, si prodigava. L’ultimo progetto riguardava la Rovigo-Trieste del Giro d’Italia del 1946. Lui era un bambino, ma quel giorno c’era, e a tutti voleva spiegare come l’agguato dei titini non si fosse tenuto a Pieris, ma lì vicino. E ripeteva, come se ogni volta potesse aggiungere un briciolo di verità: “Dodicesima tappa, il 30 giugno. Doppio giorno di festa: la festa per la domenica e la festa per il Giro. Sveglia, colazione, motorino. Un Sachs 49 di cilindrata. In due. Davanti mio padre, e dietro, abbarbicato e abbracciato, io. Da San Canzian a Begliano. Cinque chilometri di strade bianche di campagna. Poi l’attesa. Il gruppo arrivò e si arrestò: le stanghe del treno – il passaggio a livello – erano abbassate. Piedi a terra, i corridori furono presi a sassi e proiettili. Erano i titini, i partigiani jugoslavi. Ci riparammo in un campo di mais e in un boschetto. Tutti i libri dicono che quell’attentato fu fatto a Pieris, invece era Begliano. Ma tra fotografie e filmini, adesso posso dimostrare il luogo esatto”. E aveva organizzato una festa. Mi aveva chiesto aiuto. Feci solo in tempo a regalargli il titolo: W la bici. Perfetto, disse, perché ci saranno anche i bambini. Poi si appoggiò alla Pro Loco. Ma pochi giorni prima dell’evento, finalmente programmato domenica 29 ottobre,
un incidente domestico con una motosega lo ha steso. Pronto soccorso, ospedale, casa di cura, e improvvisamente una tappa che sembrava infinita è piombata nel suo ultimo chilometro.
Canciani era profondamente friulano, anzi, giuliano, giuliano di San Canzian. La bicicletta era, in mancanza d’altro, un’eredità di famiglia: “Uno zio partecipò al Giro di Sicilia del 1928. E il papà, imbragatore nei cantieri navali di Monfalcone, mi caricava sul motorino - un Sachs 49 cc - per andare a vedere mio fratello che correva. Però il papà sosteneva che il ciclismo fosse una perdita di tempo. E portava proprio l’esempio di mio fratello. Era forte, aveva qualità, vinceva. Ma a 20 anni smise di correre. Che senso ha, si chiedeva il papà, allenarsi e correre per anni e anni e poi smettere sul più bello?”. Franco insistette: “La prima corsa la feci a Monfalcone: avevo 18 anni e correvo per i Cantieri Riuniti Alto Adriatico. La seconda, a Mortegliano, la vinsi. Avevo una bici Julia che non andava avanti, però è stata preziosa perché a forza di aggiustarla sono diventato bravo come un meccanico. La verità è che ho perso tante di quelle gare per colpa della bici. Però è anche vero che ho vinto gare che poteva vincere qualcun altro. E alla fine il conto si pareggia”.
I suoi racconti erano novecenteschi: “Il mio primo maestro fu Lionello Dreossi, un maniscalco friulano. Mi insegnava che cosa mangiare e bere, quando e quanto dormire, i giri da fare, le corse da correre. Era all’avanguardia. L’allenamento più duro consisteva nel giro della Valcalda, in Carnia, 260 km, gli ultimi 80 dietro i camion che andavano a Trieste. Dreossi sosteneva che era indispensabile fare la vita: dormire alle nove, donne niente, e ricaricare le batterie. Il vero ciclista, aggiungeva Dreossi, si costruisce d’inverno, non d’estate. ‘Un giorno sarai professionista’, profetizzò. E ci azzeccò. Il secondo maestro fu Guido De Santi, triestino, che da corridore aveva tenuto testa a Fausto Coppi. Per gli allenamenti De Santi mi dava appuntamento a Monfalcone, poi diceva che non poteva muoversi da casa, o dal negozio di alimentari della moglie, e mi costringeva ad allungare fino a Trieste. Grande passione
e lunghi allenamenti: la sua ricetta. Un giorno, per una corsa su strade bianche, mi consigliò di mettere il 13 e di montare tubolari pesanti da pista. Poi mi domandò se avessi male ai reni. Gli risposi di no. E allora gonfia un po’ di più le gomme, mi disse. Così, mi spiegò, quando salti da una parte all’altra della strada, schizzi i sassi addosso agli altri corridori”.
Canciani aveva il senso della misura e della modestia, però da dilettante aveva corso non solo con il Pedale Riminese ma anche con la Padovani, per Severino Rigoni, e lì aveva vinto la Coppa Italia a squadre a cronometro e poi il Fenaroli a Milano a 48 di media con Zanchetta e Testa. E fu perfino azzurro in Francia. Avrebbe voluto partecipare alle Olimpiadi di Roma, ma certi equilibri di politica ciclistica lo avevano escluso. Poi la Ghigi, e lì ricordava tutto: “Gregario a 70 mila lire al mese, ma sarebbero state 250 mila se avessi fatto le Olimpiadi, così da capofamiglia avrei avuto la soddisfazione di veder mia madre mangiare una bistecca. Andavo forte. Alla Milano-Sanremo ero in fuga con il mio compagno di squadra e di camera Aldo Moser quando, sui capi, a una quarantina di chilometri dall’arrivo, la moto con un fotografo davanti a noi finì contro una roccia e noi finimmo contro la moto. Risultato: ritirato. Alla Mentone-Roma in sei tappe ci arrivai con un po’ di febbre, il direttore sportivo Luciano Pezzi si arrabbiò, il mio compagno e amico Angiolino Piscaglia mi consigliò di partire carico di cibo, pronto per entrare nella prima fuga. Obbedii e sul Col di Nava passai primo. Poi vinsi la classifica finale dei traguardi volanti. Al Giro di Campania ero davanti, prima sul Chiunzi, poi sull’Agerola, terzo dietro a Bahamontes e Massignan, ma Pezzi mi fermò perché da dietro arrivava Livio Trapè. E quando Trapè allungò, io rincorrevo tutti quelli che cercavano di inseguirlo, e alla fine feci nono. Al Giro della Provincia di Reggio Calabria Pezzi mi promosse mezzo capitano ma senza gregari, voleva dire libero di fare la mia corsa. Fuga di 11, dentro in tre della Ghigi, me compreso, ma ai piedi del Sant’Elia, a 35 km dall’arrivo, Pezzi ci disse di fermarci. E alla vigilia del Giro del Veneto, Pezzi mi comunicò che il mio contratto, nonostante la promessa del biennale, non sarebbe stato rinnovato. E comunque fui tredicesimo su 200 corridori”.
Leggeva e dipingeva, Canciani, viaggiava e partecipava. E aveva quel sogno, quella missione, quell’appuntamento per chiarire la storia: “Il gruppo si fermò non a Pieris, ma a Begliano, anche se forse sarebbe meglio non specificarlo altrimenti quelli di Pieris si arrabbiano. Begliano è una frazione, come Pieris, del comune di San Canzian. La strada era piena di bitume e reticolati. I titini lanciarono sassi e spararono con pistole e fucili. Ma noi non avevamo paura. Eravamo abituati alla guerra, quella mondiale e quella di tutti i giorni tra fascisti e comunisti”.