Sette anni fa – era il 1° novembre 2016 – moriva Tina Anselmi. Aveva quasi 90 anni. Veneta di Castelfranco, politica e partigiana, cattolica e democristiana, laureata in Lettere e insegnante elementare, era stata la prima donna ministro (alla Sanità) nella storia italiana e presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2.
In “Storia di una passione politica” (Chiarelettere, 119 pagine, 16 euro), Anselmi si racconta ad Anna Vinci. E nel capitolo “Cento chilometri al giorno e una gran fame” rivela i suoi anni da staffettista su una bicicletta. L’inizio: “La mia amica e il suo fidanzato mi accompagnarono dal comandante che, dopo una breve presentazione, fu molto esplicito: ‘Sai cosa ti aspetta? Se ti prendono pregherai solo che ti ammazzino, perché ti faranno di peggio’”. Il battesimo: “Nella Resistenza Tina non esisteva, dovevo assumere un altro nome e tenere ben separata la vita di tutti i giorni dall’impegno di staffetta partigiana. La nuova identità garantiva la segretezza e aveva un alto significato simbolico. Divenni Gabriella, ispirandomi all’arcangelo Gabriele: non era forse un messaggero? Divino, certo, ma faceva la staffetta, più o meno come l’avrei fatta io”. Il compito: “Mantenere i contatti fra le diverse formazioni della brigata e informarle sugli spostamenti dei tedeschi. Ma dovevo mettere in conto l’eventualità di partecipare ad azioni di guerra – far saltare un ponte, un locomotore, bloccare un convoglio – il cui scopo era impedire che fossero portati in Germania uomini e cose”.
Ecco allora la bicicletta: “Mettevamo le biciclette con i fanali disposti in modo da formare una lettera dell’alfabeto; quando la lettera era infine composta, andavamo a far girare le ruote, e i fanali si accendevano. Nell’oscurità della notte la lettera illuminata era il segnale per gli alleati: potevano sganciare i paracadute”. Ed ecco allora le biciclettate: “I cento chilometri al giorno in bicicletta di quei mesi sarebbero sempre rimasti, in me, legati a una gran fame. I miei genitori erano tranquilli, perché credevano che io mangiassi alla mensa delle suore. Ricordo invece che il mio professore di lettere antiche, don Secondo Barban, grande latinista, che doveva aver intuito la situazione, un giorno mi chiamò alla cattedra e con bonarietà mi disse: ‘Picola, picola, vien qua! Vai in sala professori a frugare nella tasca della mia giacca’. Vi trovai un po’ di pane e una fetta di polenta. Non so se, in tutta la mia vita, mi sia più capitato di mangiare una polenta altrettanto saporita”. La missione: “Una volta mi ha inseguito un camion di fascisti e io avevo sul manubrio la valigetta con la radiotrasmittente che dovevo portare al comandante regionale dei partigiani, colonnello Galli. Per sfuggire agli inseguitori mi sono buttata dentro un fossato pieno di fango. Scampato il pericolo sono risalita sulla strada ed ero tutta sporca e bagnata. Non potendo certo andare in giro in quelle condizioni, mi sono rifugiata in canonica”.
E finita la guerra? “Quella bicicletta che mi aveva accompagnato durante tutta l’attività partigiana continuò per qualche anno a essere il mio mezzo di trasporto. Certo non con gli stessi patemi d’animo. Poi l’ho mandata in pensione, perché ritenevo esaurito il suo compito”.