La pietra, di tanto in tanto, se la prende tra le mani, non tanto per sentirne la consistenza o il peso, ma per accarezzarla e coccolarla, come l’oggetto più prezioso della sua carriera. Di pietra non è il suo cuore, visto che Sonny Colbrelli è uomo di sentimenti e di gesti: di buon senso. È un operaio del pedale, per dirla con il corridore della Val Sabbia, un operaio specializzato però, che conosce il sacrificio e la rinuncia.
Sonny, come il detective protagonista di Miami Vice, arrivato sulle tivù italiane alla fine degli anni Ottanta, è di Casto, comunità montana della valle Sabbia, in provincia di Brescia. Il bambino con il nome americano ha solo una fissazione: correre.
Sonny voleva correre in bici, ma quella non fu una strada in discesa. Era tutto fuorché un atleta, almeno nell’aspetto.
«Per me mai nulla è stato semplice – mi dice -. Ero miope, due fondi di bottiglia come occhiali, per i miei compagni di classe ero solo quattr'occhi. E non è tutto. Ero anche paffutello, per non dire grasso, obeso o in carne. Insomma, le avevo tutte per essere scartato e deriso a priori: oggi si direbbe bullizzato. Ma si sa come sono i bambini… tutt’altro che buoni e generosi. Poi, però, in sella alla bicicletta il cicciottello a quattr'occhi se li lasciava tutti alle spalle, ed erano loro a quel punto a non vedermi più…».
Ne ha fatta di strada Sonny Colbrelli, campione d’Italia a Imola, campione d’Europa a Trento, re sulle strade della Roubaix, la “regina delle classiche”.
«Se sono arrivato fin qui, il merito è di nonno Cesarino, il papà di mia mamma (Fiore, ndr), anche lui operaio in acciaieria come tutti i Colbrelli. Fu nonno Cesarino a capire tutto, a comprendere che la mia passione andava assecondata. Cominciò a dare una mano alla società, guidava il pullmino, portava i ragazzini alle corse. La notte del sabato mi metteva a dormire e all’alba mi portava alle corse. Il resto della famiglia, sarebbe arrivata dopo, con calma».
Era un lottatore, che però spesso si arrendeva: non credeva in se stesso fino alla fine...
«“Ci si arrende dopo la linea del traguardo, mai prima”, mi diceva il nonno, che è venuto a mancare quando ero dilettante. Da sempre mi porto nel taschino della radiolina la sua immagine. Ho sempre pensato che mi protegga e, qualche volta, mi da anche una spinta. Spero che abbia visto quello che quest’anno sono riuscito ad ottenere».
L’uomo della pioggia è anche uomo prudente: per lui la sicurezza è una priorità.
«Amo correre da sempre con il tempo infame: con la pioggia ho almeno la metà dei concorrenti che si arrendono subito. La selezione è naturale, più semplice. Ma la pioggia o le intemperie le adoro non perché io sono tipo che rischia, tutt’altro, solo che sopporto bene il freddo e la fatica. Se ho mai fatto una cosa da pazzi? Mai. In bicicletta riesco sempre a mantenere lucidità e, soprattutto, cerco sia in corsa così come in allenamento di non fare manovre azzardate. Parola chiave? Casco. Sembra un’ovvietà, ma io sulle strade d’Italia, ogni giorno, vedo ancora troppo ciclisti privi di casco. Non è tollerabile».
Anche le tante moto in corsa, non sono tollerabili.
«Verissimo, ma questo è un problema soprattutto straniero. Da noi in Italia, con tutti i problemi che possiamo avere, in materia siamo all’avanguardia. All’estero non è così, in particolare al nord, in Belgio e in Olanda, dove spessissimo le moto del seguito sono un vero e proprio intralcio, succede davvero di tutto. Là c’è tanta passione, molto più seguito e, probabilmente, anche chi segue le corse si fa prendere la mano. Ma questo costituisce un grosso problema per tutto il gruppo. È da anni che noi corridori chiediamo più rispetto e attenzione: molto è stato fatto, ma in certe occasioni rischiamo ancora troppo».
Dalla brochure del Giorno della Scorta 2021