Ho ancora negli occhi i suoi, lucidi e carichi di emozione, per quel raccontare raccontandosi con “Coppiebartali”, tutto attaccato, quasi a sancirne l’impossibilità di parlare di uno senza narrare dell’altro. Una storia di due campioni assoluti, sullo sfondo di un’Italia lacerata dalla guerra, e di tante famiglie laboriose che si sono rimboccate le maniche per ricostruire dalle macerie un Paese. Tra queste famiglie, anche la sua, quella dei Doris.
Ho ancora negli occhi i suoi, lucidi e dolci, carichi d’amore. Per Alberto, un padre coppista e Agnese, una mamma tenera come solo le mamme sanno essere. Parlava d’impresa e delle imprese, di quei due là: “Coppiebartali”, tutto attaccato, quasi a sancirne un amore indivisibile.
Enciclopedico e fiabesco. Epico e romantico. Passionale e struggente. Questo era Ennio Doris, un fuoriclasse assoluto della finanza, un visionario capace di guardare oltre al visibile, forsanche perché tra le sue grandi passioni c’era l’astronomia. Sapeva scrutare il cielo, amava le stelle. Sapeva leggere le costellazioni, ma anche il cuore degli uomini.
Con Doris ho condiviso la passione per la bicicletta (ma anche per Napoli e la canzone napoletana, per Totò). Per il ciclismo. Per il nostro Fausto Coppi, il Campionissimo. Riconoscendo però entrambi, la grandezza del suo amico-rivale: Gino Bartali. Non è un caso che il quarto libro scritto assieme, sia stato proprio “Coppiebartali”, tutto attaccato. La storia di due supercampioni capaci di dividere e unire l’Italia, ma che è anche la storia di un uomo che dal nulla ha creato un impero, rimanendo fedele però a sé stesso, a quella semplicità di base che includeva il mondo.
Con Doris ho condiviso anche spazi su “Il Giornale”, il suo giornale, per il quale ha dispensato pensieri e opinioni durante il Giro d’Italia e non solo. Non c’era consiglio d’amministrazione che tenesse: se c’era un finale di tappa, quella era una priorità. A seguire commento. Come in occasione del titolo mondiale a cronometro, conquistato da Filippo Ganna. Una delle ultime volte che l’ho sentito felice, “per una prestazione esaltante”.
L’ultima volta una settimana fa, una breve chiamata, per conoscere nel dettaglio il profilo del prossimo Giro d’Italia.
Un uomo di fede e di sport, un banchiere che sapeva contare, ma contava su chi sapeva. Bravo a circondarsi di persone brave: sapeva fare squadra. Sapeva allestirle come pochi. Dal ciclismo ha preso probabilmente anche questo, visto che era solito usare metafore ciclistiche come paradigma motivazionale per i suoi “ragazzi”.
Ho ancora davanti ai miei occhi i suoi, carichi di commozione, nel raccontare con passione le gesta del Campionissimo. La sconfitta sulle Dolomiti al Giro del ’53, le speranze che svaniscono come neve al sole, e quelle parole di papà Alberto, che ricordava con la voce rotta dall’emozione, che furono per lui un mantra: «C’è anche domani…». E il domani è la tappa Bolzano-Bormio. È la tappa numero 20. È lo Stelvio scalato per la prima volta nella storia del Giro d’Italia. Köblet si sente ormai vincitore, Coppi non si sente ancora vinto, e per questo vincerà.
Ho nelle orecchie la sua voce inconfondibile, nata per il racconto. Per narrare storie epiche e imprese mirabolanti, come se fossero dei romanzi d’appendice o delle “chanson de geste”. Una voce calda e pastosa: rassicurante. Capace di toccare le corde del cuore, per sedimentarsi come polvere di Dolomia. Le sue montagne. I monti pallidi. I monti di cristallo. Le vette di “Coppiebartali”, tutto attaccato, come voleva lui, che non parlava di uno se non raccontava anche dell’altro. Incapace di dividere, ma solo di condividere.
da Il Giornale