Eddy Merckx ha appena festeggiato i 74 anni ma la grande celebrazione deve ancora cominciare. E sarà planetaria, con un Grand Depart del Tour che si annuncia indimenticabile.
«Sono onorato di tutto questo, anche perché la mia storia non sarebbe stata la stessa senza il Tour, che è la corsa più importante del mondo, anche se non meno preziosi sono i cinque successi al Giro e quello della Vuelta nel 1973. Le mie 34 vittorie di tappa? Detenere un record fa sempre piacere e il fatto che nessuno, nemmeno i velocisti, finora abbiano fatto meglio di me significa che la mia parabola alla Grande Boucle è stata tanto regolare quanto vincente. I cinque trionfi finali? Mi rendono orgoglioso e chissà se Froome riuscirà ad entrare in questo club: spero che recuperi al meglio dopo il grave infortunio e che il prossimo anno ci possa riprovare, è un’opportunià che merita di giocarsi».
È un Merckx calmo e riflessivo, quello che si concede al cronista in questa vigilia di Tour de France.
«La mia giovinezza non è stata facile, mio padre lavorava sempre per crescere i suoi tre figli. E non mi considero una persona speciale: un medico che salva le vite ha molti più meriti di un ciclista. Io ho fatto semplicemente il massimo per esaltare le mie doti. Mi piaceva e mi piace vincere, anche quando gioco a carte in famiglia. E nonostante tutto, continuo a sentirmi un po’ fuori posto con la notorietà, le interviste, gli autografi e le foto. Forse perché non amo vivere di ricordi, ma penso al domani, alle cose da fare, ai nuovi progetti».
Cosa ricorda del Tour del 1969?
«Che per me fu una rivincita assoluta dopo quanto era accaduto al Giro d’Italia (quando a Savona fu fermato per doping, ndr) e che vinsi con più di 17 minuti di vantaggio su Roger Pingeon. Ho dimostrato che non serviva prendere nessuna sostanza per battere i miei avversari. Dopo lo stop forzato pensavo di non salire più in bicicletta, poi la Federazione Internazionale mi fece sapere che avrei potuto correre il Tour se mi fossi sottoposto a controlli. Ho accettato, chiaramente, perché non avevo nulla da nascondere. Ero rabbioso, impazzivo all’idea di dimostrare che non mi serviva doparmi. E l'ho dimostrato sulla strada».
Cosa pensa del ciclismo attuale?
«Che il nostro sport non è mai stato così pulito. Apprezzo anche il passaporto biologico, sebbene non capisca perfettamente certe sentenze: un campione come Alberto Contador è stato sanzionato, un altro campione come Chris Froome è stato assolto. E la gente non ha capito, come me».
Segue il ciclismo in tv?
«Sì e mi diverto quando vedo i campioni attaccare. E penso che da questo punto di vista quello che più mi assomiglia è Alejandro Valverde: quando è in corsa punta sempre alla vittoria. Mi piacciono molto anche Peter Sagan e Froome, così come ho ammirato Contador».