Cominciamo dal principio, da tutte le volte che ci siamo parlati di fretta, senza mai darci il tempo di raccontare per filo e per segno, e di ascoltare attentamente. Damiano Caruso è un corridore che rischia di passare inosservato. Poteva essere una bella storia quella del siciliano che diventa corridore professionista, «però c’è già Nibali, e lui in più vince». Ma quella di Caruso è una storia diversa, quella di un ragazzo che prima ha preso il diploma da geometra, poi è emigrato in Toscana per diventare un corridore e alla fine è tornato indietro per amore. Due amori. Quello per Ornella, «non c’ero mai, a un certo punto le ho detto che poteva sentirsi libera, ma lei ha deciso di aspettarmi», e quello per una terra allo stesso tempo meravigliosa e complicata.
«Mi dicevano: ma come fai, sei lontano. Però non è vero: nelle ultime stagioni il 95% delle corse le ho fatte all’estero, cosa mi cambia fare uno scalo in più fino a Catania? Torno a casa due ore dopo gli altri. Pazienza. Però torno a casa». Casa è Ragusa, al sud del sud, con le sue chiese barocche, i suoi ponti, il vento che soffia dal mare. Casa è dove ci sono Ornella e Oscar, che ha quasi quattro anni e i riccioli biondi da normanno. C’è la famiglia, ci sono gli amici, «non tanti, quattro o cinque, quelli veri, è anche per loro che ho scelto di tornare, perché non mi andava di farmi stravolgere la vita per i soldi, la carriera di un corridore dura poco e ci sono cose che non puoi comprare, io quando parto so che il mio mondo rimane lì, ad aspettarmi, e parto tranquillo».
Perché il ciclismo?
«Non certo per eredità di famiglia. Mio padre giocava a pallone, anche discretamente, lui non c’entra. In casa si guardavano il Giro e il Tour, come in tutte le famiglie, ma niente più. Il ciclismo è stato un caso. Avrò avuto quattordici, quindici anni, era d’estate e faceva caldissimo: mi tolsi la maglia e avevo la pancia, ero un po’ cicciottello, di colpo mi vergognai. Un amico di papà mi disse: vieni a pedalare con me. Fu come una scintilla».
Papà non era soltanto un calciatore dilettante.
«Si chiama Salvatore, fa il poliziotto. A 19 anni era a Palermo, nella scorta di Falcone. Poi nell’87 sono nato io e ha chiesto il trasferimento, quando avevo due anni è tornato a Ragusa. Mia mamma, Carmen, lavorava in casa. Cinque anni dopo di me è nato Federico, che lavora alla base di Sigonella. Controllore del traffico aereo».
Gli amici almeno andavano in bicicletta?
«Macchè, i miei amici non sanno niente di ciclismo. Pensa che il pomeriggio dei Mondiali di Innsbruck, dopo la corsa, mi chiama questo mio amico che fa l’architetto. Mi fa: Damiano, ma quando finiscono ’sti Mondiali? Pensava che durassero come i Mondiali di calcio, con i quarti, le semifinali e la finale».
È perché si parla sempre troppo poco di lei.
«I miei tifosi sono arrabbiatissimi per questo. È che navigo sempre in un punto cieco della corsa, subito dopo i primi ma prima del gruppo. Così non mi si nota».
Pensa di essere sottovalutato?
«All’inizio mi sottovalutavo anch’io vedendo la considerazione degli altri. Poi ho capito che pedalo per me, e non faccio mai niente per farmi notare».
Non è social?
«No. C’è una pagina Facebook ma la cura mio fratello. Ho Instagram e Twitter ma ci penso sempre troppo prima di scrivere qualcosa. Leggo tante di quelle marchette che preferisco evitare».
Come giudica la sua carriera?
«Finora buona. Mi manca una bella vittoria. Non chiedermi dove o quando, ma voglio vincere».
Dove? Quando?
«Magari una tappa al Giro, purché poi finisca con Vincenzo sul podio. Su quale gradino preferisco non dirlo».
Diciamolo invece.
«Prima o poi vorrei vincere un Grande Giro con il mio capitano. Soprattutto adesso che il capitano è un amico, non soltanto un collega».
Un amico?
«Nibali lo conosco dal 2007. Se prima ho sempre dato il cento per cento per il mio capitano, quest’anno darò anche qualcosa di più. Sono migliorato a livello atletico, e ho messo insieme esperienza, spero che il mio arrivo sia utile. Mi auguro di essere all’altezza del compito. Non vedo l’ora di cominciare a correre, se ci pensi il Giro arriva subito. E poi magari sembra una stupidata, ma quando ti ritrovi in camera dopo una giornata lunghissima poter fare due chiacchiere in dialetto aiuta a sentirsi a casa».
Una fortuna.
«Io sono tifoso di Vincenzo, un appassionato di ciclismo non può non tifare per lui. Sono stato fortunato. Quando ero juniores avevo il mito di Ivan Basso, e ho realizzato un sogno: sono stato in squadra con lui, e anche in camera con lui. Adesso sono il compagno di stanza di Nibali, che sta scrivendo la storia del ciclismo».
Come si corre con un amico?
«Siamo in testa al gruppo, ci mettiamo a parlare, a parlare, e a un certo punto ci accorgiamo che siamo in fondo, davanti alle ammiraglie. E siamo costretti a rimontare».
Di che cosa parlate?
«Di casa, di macchine, di tutto. Di cose che è meglio non raccontare».
Damiano ride, e scopre il tribale che ha sul braccio.
«Ho un altro tatuaggio, sulla gamba, quello non lo rifarei. Quando si è giovani si è sciocchi. Pensa che io avevo anche due orecchini, ero decisamente più trash. Scommetto che mi avevi sottovalutato».
da tuttoBICI di febbraio