Ancora sto aspettando che i signori presentatori del nuovo Giro 2019 ci parlino come si deve dell’unico italiano che magari, forse, chissà potrebbe essere in gara, e che magari, forse, chissà, potrebbe pure vincere. Parlo ovviamente di Vincenzo Nibali, almeno io. Almeno qualcuno ne parla. Non capisco invece perché da veri provinciali siamo tutti qui a spremere le meningi e a stendere passatoie per i Thomas, i Froome, i Doumolin, i gemelli Yates, certo bella gente, certo aristocratici in grado di nobilitare la nostra corsa, ma certo anch’essi più nobilitati se possono lottare con un italiano, secondo un canone classico che ha sempre entusiasmato sulle nostre strade. Ma lasciamo perdere, certi misteri io non lo si so spiegare.
Detto del capitolo iscritti veri o presunti, ignorati o agognati, comunque un capitolo che lascia sempre tutto aleatorio e incerto fino a quando i singoli team non mettono nero su bianco i programmi (magari con l’aiutino di ingaggi ambiziosi), a me pare che si debbano e si possano fare le pulci soltanto al tracciato, unica base sicura del discutere, perché quello è definito e indietro non si torna.
Personalmente, per non farla tanto lunga, mi soffermerei sul meglio e sul peggio. Il peggio sta indiscutibilmente nel solito dosaggio monstre della cronometro (quasi 60 chilometri, resta uno sproposito), ma da questo punto di vista non è una sorpresa: per convincere i big stranieri, tutti attrezzati nel settore, bisogna concedere qualcosa. Ci siamo abituati, forse non vale neppure più la pena di rompere le scatole sulla crono. Sulla troppo crono, specifico fino alla noia, perché la crono in sé è bella e ci vuole.
Ma peggio di questo peggio c’è un altro peggio: la Cuneo-Pinerolo, venduta come rievocazione della memorabile tappa coppiana, in realtà patetico surrogato che ricorda solo il punto di partenza e il punto di arrivo. Anche andando in autostrada è una Cuneo-Pinerolo. Anche in treno. Ma non c’entra niente con Coppi. Opinione personale: per rievocarla in questo modo, meglio evitare del tutto. Meglio parlarne al bar come facciamo da mezzo secolo e usare i superlativi della memoria. A me, così, non sembra rendere omaggio: sembra dissacrare.
E passo al meglio, che è meglio. Strepitosa la Ivrea-Como, con il finale del Lombardia e la lunghezza da classica-monumento. E’ comunque fedele allo slogan – “La corsa più dura del mondo eccetera eccetera” – il tracciato nel suo complesso, chiara e decisa scelta di campo per mantenere l’identità unica e irrepetibile della nostra corsa, altrimenti sovrastata dal Tour se appena prova a snaturarsi per pura imitazione. Troppo dura? Può darsi. Ma questo è il Giro, prendere o lasciare: un campione non è un campione se non viene a sputare l’anima in Italia. E’ il nostro marchio di fabbrica. La nostra griffe. Questa è una verità che dobbiamo perpetuare nei secoli dei secoli, amen.
In questa cornice, il quadro più bello, almeno quello che io preferisco: la tappa con Gavia e Mortirolo. Non c’è niente di più romantico, di più suggestivo, di più emozionante, di più evocativo, di più, della giornata mondiale del fachiro. Poi lo sappiamo che magari farà più male alla classifica una caduta nella tappa di trasferimento, magari per una moto della Polizia improvvidamente ferma a bordo strada, ma questo si chiama caso, fatalità, imprevisto. Gavia e Mortirolo, in coppia, sono tutta un’altra cosa: sono il ciclismo, quello vero.