Due edizioni. La prima, nel 1989. La seconda, nel 1990. Poi lo sponsor si ritirò. Problemi fiscali, strategie diverse, obiettivi ingigantiti. Era il Tour de Trump. Lui, Donald Trump.
L’idea non era stata del Billionaire, il miliardario, ma di Billy Packer, un commentatore del basket Ncaa, quello dei college, per la rete televisiva Cbs. All’alba del 1987 aveva scoperto il Tour de France, il suo fascino narrativo, la sua potenza economica. “Di ciclismo – confidò – non sapevo nulla, neanche come si gonfiasse una camera d’aria”. Il primo progetto fu organizzare una corsa a tappe nel New Jersey, sponsorizzata dai casinò. Qui il primo contatto con Trump, proprietario di un paio di templi del gioco d’azzardo ad Atlantic City. Il secondo progetto – la conduzione tecnica affidata a Mike Plant, pattinatore su ghiaccio olimpico e membro del Comitato olimpico statunitense – fu allargare la corsa ad altri stati per interessare altri finanziatori. Il sogno dichiarato era diventare grandi, se non di più, del Tour de France. Qui il secondo contatto con Trump. Packer, pur di coinvolgerlo nell’operazione, propose di battezzare la corsa Tour de Trump. Il Billionaire rifiutò - per la sorpresa più che per modestia: la modestia non ha mai fatto parte del suo carattere – l’invito per 20 secondi, quindi lo sposò.
Il Tour de Trump 1989 partì da Albany, New York, e arrivò a Richmond, Virginia, proprio davanti all’Atlantic City Casino di Trump: 10 tappe, 1339 chilometri, cinque stati, 114 corridori di 19 squadre (otto professionistiche e 11 dilettantistiche, fra cui l’olandese Sauna Diana, sponsorizzata da un bordello) da 15 Paesi. Fra i partenti, anche Greg LeMond, già vincitore di un Tour de France (nel 1986, e ne avrebbe conquistati altri due, nel 1989 e nel 1990). Vinse il norvegese Dag Otto Lauritzen (ma della 7-Eleven, la squadra statunitense di Andy Hampsten e poi di Lance Armstrong), anche se l’edizione fu dominata dal belga Eric Vanderaerden, vincitore di quattro tappe. Ma proprio nell’ultima, a un bivio Vanderaerden sbagliò strada e perse il primato. Fra i ricordi di quella prima edizione: la partecipazione di Mario Cuomo, governatore (democratico) di New York, ma il rifiuto di Ed Koch, sindaco (democratico) di New York; la protesta di gruppi di spettatori, nella cittadina universitaria di New Paltz, nello stato di New York, che vedevano in Trump il simbolo di un capitalismo corrotto e scandaloso; e la guerra di marchi commerciali scatenata da Trump, in un delirio di onnipotenza, contro il Tour de Rump, piccola corsa locale ad Aspen, in Colorado, nata – per amor di precisione – nel 1988, un anno prima del sedicente concorrente.
Il Tour de Trump 1990 s’ingrandì: prologo e poi tredici tappe per 1760 chilometri di gara. Fra i partenti anche Hampsten, già vincitore di un Giro d’Italia (nel 1988). La corsa fu vinta dal messicano Raul Alcala (nono Hampsten). La sera prima della presentazione della competizione, Trump si trovava dall’altra parte del mondo, a Tokyo, in Giappone, per il Mondiale dei pesi massimi fra Mike Tyson e Buster Douglas, ma arrivò in tempo atterrando sul tetto del DuPont Plaza di Wilmington, Delaware, in elicottero. Fra i ricordi di quella edizione: la fuga-bidone con cui Vladislav Bobrik – un russo, che paradosso – trionfò nella terza tappa guadagnando 22 minuti e condusse la classifica generale fino a un clamoroso crollo sulla salita chiamata Devisìs Kitchen, la cucina del diavolo, sui Catskills. Trump non rinnovò, causa problemi fiscali, il suo impegno con la corsa. Se ne impadronì proprio la DuPont, un colosso chimico, che la mantenne in vita fino al 1996 (le due ultime edizioni vinte da Armstrong).
“Gli ho dato il mio nome – disse Trump – perché credo che abbia un grande futuro e basteranno pochi anni per farlo diVentare più grande del Tour de France”. Già.