Non sappiamo se e quando, speriamo ovviamente molto presto, Montevergine di Mercogliano e il suo Santuario, diventeranno nuovamente sede di arrivo per un Giro d’Italia. Ma di certo la recente notizia che Bart de Clercq - il poco conosciuto corridore belga che su quel nostro traguardo si impose un venerdì di maggio del 2011 - ha dovuto dare l’addio al ciclismo, per i postumi di una grave caduta patita in allenamento, ci ha riportato alla memoria, e non saremo certo i soli a farlo, quel pomeriggio e un arrivo di giornata molto particolare.
Montevergine di Mercogliano era assunto alla ribalta del Giro nel ’62, primo allora ancora un atleta belga, un regolarista (come si diceva, nel gergo tecnico dell' epoca, di un corridore buono a non eccellere in nulla, se non nell’arrivare fino in fondo…), Armand Desmet, della Faema di Van Looy, che in quella occasione avrebbe anche indossato la maglia rosa del primato. E da allora aveva salutato solo vittorie rigorosamente tricolori, Danilo Di Luca nel 2001 e nel 2007, ed una volta Damiano Cunego, nel 2004. Con una sfumatura gradita di buon augurio, perché il Di Luca del 2007 ed il Cunego del 2004 avrebbero poi conquistato anche il Giro in assoluto…
E se questa è storia assoluta, come è cronaca ultrarecente il successo di Richard Carapaz, nell’ultimo approdo del Giro a Montevergine, nel 2018, pure la vittoria di quel de Clercq, dorsale 134 della Omega Pharma - Lotto, 25 anni, un anonimo fiammingo, al primo anno di professionismo, nessun successo in carriera, ispira ancora un profumo speciale, diretto dal Santuario.
De Clercq, in quella frazione che da Maddaloni portava il Giro in Irpinia, era l’ultimo attore di una serie di scatti e controscatti, dopo Ospidaletto di Alpinolo, sferrati da attaccanti generosi - Pirazzi, Bak, Ochoa, Pineau - destinati, sui tornanti non arcigni di Montevergine, ad essere tenera preda del gruppo dei migliori, alla ricerca di un successo di rango.
Ebbene, quel de Clercq lì, biondo ragazzo di Zottegem, Mare del Nord, con una souplesse senza sbavature, riuscì a scavare fra la propria solitudine e l’arrembare discontinuo di un plotone tirato da Garzelli e Scarponi, Contador e Kreuziger, un incedere gentile protetto dagli alberi, un vantaggio consistente. Di quelli, peraltro, sulle rampe da progressione di Montevergine, che il plotone dei più forti, con un paio di trenate giuste in sequenza, è abituato per concetto a sgretolare senza pietà...
E quel giorno invece no, no, riviviamo ancora l’ultimo rettilineo breve e infinito nel frastuono della gente, l’ultimo spasmodico suo raccogliersi sui pedali, l’ultima apnea come in preghiera, per de Clercq, il favorito di nessuno. E lui primo, e i migliori, per una volta non migliori, che lo guatano ma lo superano rabbiosi a doppia velocità, solo subito dopo la striscia del traguardo: Scarponi, Kreuziger, Garzelli, i centesimi di una vita…
E davvero ci parve, quel giorno, non ci pensavamo più tanto, quando de Clercq fra le lacrime, in uno stentato francese, parlò in conferenza stampa del suo successo, che un ultimo soffio di vento a favore, solo per lui, frenando gli altri, glielo avesse donato la Madonna di Montevergine, un soffio al cuore. «Dedico questa incredibile vittoria al mio amico Wouter Weylandt, che è morto qui al Giro due giorni fa, e a sua moglie Sophie, che aspetta un bambino che non conoscerà mai suo padre. Oggi, non ha vinto il numero 134, il mio, ma il numero 108 della corsa, quello che aveva indosso lui». (Ciao, Bart, con affetto, buona vita ventura).
da tuttoBICI di ottobre