Filippo Baroncini è passato professionista nel 2022 ma, di fatto, è come se avesse cominciato a fare sul serio soltanto ora. Ciò che gli è capitato nei primi due anni e mezzo di esperienza tra i grandi, infatti, è stata una mazzata che avrebbe messo KO chiunque. Il romagnolo, per fortuna, è corridore tenace e cocciuto, e dopo ogni infortunio si è rialzato con la cattiveria di chi sa di avere un talento che va coltivato, aspettato e fatto sbocciare. Dopo un biennio alla Lidl Trek passato purtroppo più in infermeria che in corsa, il classe 2000 è diventato una delle scommesse della UAE Team Emirates, una squadra che, di solito, il talento lo sa individuare.
Anche la prima stagione con la formazione emiratina non è stata tutta rose e fiori per Baroncini che, però, ora sembra vedere davvero la luce in fondo al tunnel. Il 21 settembre ha centrato la sua prima vittoria da professionista, una classica fiamminga nei dintorni di Bruxelles costellata di côtes, la Super 8 Classic, con un’azione solitaria che ha ricordato tanto quelle che faceva nel 2021, l’ultimo anno da U23 in cui ha vinto tanto e bene, compreso il Mondiale nelle Fiandre.
Filippo, raccontaci di questa liberazione.
«Stavo molto bene e lo sapevo, perché ero uscito al meglio dalla Vuelta e poi al Memorial Pantani avevo fatto una bella azione solitaria che mi aveva dato indicazioni importanti. Poi vincere non è mai scontato e semplice, però pian piano che ci avvicinavamo al traguardo, per come si era messa la corsa e per gli avversari che c’erano ho intuito che potevo davvero puntare al bersaglio grosso».
15 km in solitaria, hai anche avuto modo di realizzare bene quello che stava succedendo?
«Quando ho visto che ai -5 km il vantaggio non calava ho capito che ormai era fatta. In più alla radiolina continuavano ad incitarmi, in particolare Ivo Oliveira che è uno di quelli con cui ho legato di più in squadra, ed è stato tutto molto bello. Mi son goduto quegli istanti, ho anche avuto modo di riavvolgere il rullino e pensare a tutto quello che mi era successo ultimamente. Mi son detto “è tempo di lasciare tutto alle spalle”. E c’è anche un aneddotto abbastanza divertente».
Quale?
«Una settimana prima con il diesse Fabio Baldato stavamo guardando i voli di ritorno dal Belgio e io avevo proposto di tornare la sera stessa, dopo la gara. Invece Fabio ha voluto prendere quello del giorno dopo perché era sicuro che avrei vinto. Così negli ultimi chilometri ha cominciato a urlare in radio “te l’avevo detto che dovevamo prendere l’aereo il giorno dopo!”. È riuscito a strapparmi un sorriso nonostante la sofferenza dell’essere a tutta».
Facciamo un passo indietro. Dopo quel magico 2021 in cui sei diventato campione del mondo U23 è cominciato ad andare tutto storto…
«Appena passato professionista, a febbraio 2022, sono caduto in Algarve e mi sono rotto il radio. Non è stato certo il modo ideale di esordire, viste anche le aspettative che avevo creato su di me nel 2021. Sono tornato a correre e poi, ad agosto, quando cominciavo ad andare abbastanza forte, sono caduto alla Bretagne Classic e mi sono fratturato nuovamente il radio, perché la placca installata aveva fatto leva, e in più si è rotta anche la clavicola. Stagione finita e ritorno nel 2023. Ad inizio stagione, alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne, sono rimasto coinvolto in una caduta stupidissima, mi sono rialzato per chiamare l’ammiraglia e mi sono accorto che sul braccio c’era ancora qualcosa che non andava. Responso: altra frattura, la terza, del radio».
Come mai sempre il radio?
«Le operazioni sono state fatte male. Mi sono confrontato con diversi chirurghi italiani e non solo, e quella è l’unica spiegazione a queste continue ricadute».
Hai risolto adesso?
«Ora ho due placche che tengono l’osso, come fosse un panino, e per il momento non ho avuto problemi. Per toglierle dovrei fare una doppia operazione, ma finché non ho fastidi credo che lo lascerò così».
Ma torniamo ai tuoi infortuni…
«Sì, quest’anno è arrivata la ciliegina sulla torta. GP Denain, la piccola Roubaix come la chiamano, ero davanti a giocarmi la corsa, Küng è scivolato sul pavé e ha fatto strike su tutto il gruppo di testa. Gomito fratturato e quinta frattura in due anni e mezzo».
Qual è stata la più dura da affrontare mentalmente?
«La terza frattura del radio è stata una mazzata micidiale, un “calcio nei maroni” vero e proprio. Una caduta così sciocca che ti costringe a fermarti di nuovo, a perdere ancora metà stagione. Lì ho cominciato a farmi un po’ di paranoie, a pensare che forse ero io il problema. Mi dicevo “ma corri in bici per fare risultato o per romperti le ossa?”».
Anche perché, col ciclismo di oggi, non è mica facile rientrare a stagione in corso.
«Esatto. Dopo i primi infortuni la fretta di tornare in forma mi ha portato a spremere troppo il corpo, così per un mese magari andavo anche abbastanza bene, però poi la condizione calava e mi ritrovavo a non essere né carne né pesce. Quest’anno invece non ho voluto affrettare i tempi di recupero e i risultati si vedono, peccato non averlo fatto anche prima».
Nonostante tutto, però, è arrivata la chiamata della corazzata UAE Team Emirates.
«Assolutamente, la cosa più bella del 2023 è stata la loro chiamata. Perché se l’interesse viene dalla squadra più forte del mondo allora cominci davvero a pensare che qualcosa di buono in te c’è. Ho preso la palla al balzo e fin dal primo giorno mi sono messo in testa di voler ripagare la loro fiducia. Ci ho messo un po’, ma adesso sto venendo fuori».
Sono arrivate 82 vittorie in stagione. Come si vive lo strapotere UAE dall’interno?
«È uno stimolo enorme, perché sei circondato da campioni e hai voglia di raggiungere il loro livello. In una formazione più piccola magari devi lottare contro i tuoi limiti, mentre qui hai effettivamente delle asticelle da raggiungere. In più la squadra ti garantisce i tuoi spazi se vai forte, così mettersi a disposizione degli altri corridori, alla fine, non risulta per nulla pesante».
A parte Pogacar, chi ti ha impressionato particolarmente tra i tuoi compagni?
«Almeida e Yates. Sono calmi e pacati, ma al Giro di Svizzera hanno distrutto tutti, sembrava giocassero».
E intanto per te è arrivato, alla Vuelta a España, anche il debutto in una corsa di tre settimane.
«Era da un anno che inseguivo questo benedetto primo Grande Giro, e finalmente l’ho corso. Sapevo mi avrebbe dato qualcosa in più e così è stato, i benefici li ho avvertiti subito. Posso finalmente dire che Baroncini è tornato e sta cominciando a divertirsi».
Un Grande Giro ti cambia davvero il motore come dicono?
«Dipende un po’ come lo corri, secondo me. Io ho alternato tappe in cui prendevo vento in faccia per la squadra e poi magari andavo tranquillo fino all’arrivo ad altre in cui invece spingevo fino in fondo per vedere dove potevo arrivare. A mio parere vanno corsi così, se vivacchi pascolando in mezzo al gruppo giusto per arrivare alla fine, non cresci mai».
Il Mondiale lo hai vinto nelle Fiandre, la prima da professionista è arrivata nelle Fiandre. Sei un uomo da Nord?
«Mi piaccono le classiche, ma quando stai bene è facile farsele piacere. Quando ci sono pavé, stradine strette, stress, se hai la gamba giusta, fai presto a fare la differenza e allora lì sì che ti diverti. Bisogna riuscire ad arrivarci belli pronti, come ero riuscito a fare quest’anno alla Nokere Koerse e al GP Denain, prima che la sfortuna si mettesse in mezzo».
Se la vittoria al Super 8 fosse arrivato due giorni prima, magari, ti guadagnavi pure una chiamata per Zurigo…
«Non sono stato in contatto col ct Bennati ultimamente. Se mi avesse chiamato, ci sarei andato ovviamente volentieri , però quello di Zurigo non era neanche un percorso tanto adatta alle mie caratteristiche. Dormo bene comunque, diciamo. Spero arrivino altre occasioni in futuro».
da tuttoBICI di ottobre