Memento audere semper. Simone Velasco se l’è tatuato addosso e a Comano Terme ha messo in pratica il suo motto splendidamente. Ricordati di osare sempre: lo ha fatto il 27enne della Astana Qazaqstan che si definisce un “romantico”. Sull’impegnativo circuito trentino che ha assegnato il titolo 2023 ha concretizzato il sogno che aveva idealizzato più e più volte. Ha atteso il momento giusto, consapevole di poter contare su un team forte e su un’ottima condizione (già 4° due giorni prima nel tricolore a cronometro vinto da Ganna, ndr), e in volata è stato un cecchino. Ha scelto il lato sinistro della strada, avendo la meglio su Lorenzo Rota e Kristian Sbaragli, finiti con lui sul podio ma con il volto scuro. A differenza sua.
Tagliato il traguardo il nuovo campione d’Italia è al settimo cielo: piange, ride, si mette le mani tra i capelli e strofina gli occhi. Si aggira incredulo con la voce rotta dall’emozione e il cuore che batte a mille. Si illumina quando, tra tutti coloro che lo vogliono abbracciare, vede arrivare la compagna Nadia che spinge il passeggino con la loro piccola Diletta: Simone prende in braccio la figlia di 8 mesi, bacia la fidanzata e le stringe in un abbraccio tricolore. È l’inizio di una festa che dal Trentino esplode fino in Emilia Romagna e in Toscana, valicando i confini nazionali fino a San Marino, per conquistare le strade del mondo di cui si sente cittadino.
A distanza di qualche giorno hai realizzato che la maglia tricolore è tua?
«Sì, all’inizio non riuscivo a crederci. Mi sembrava troppo bello per essere vero. Devo dire grazie di cuore a tutti coloro che sono sempre stati presenti nella mia vita, a chi mi ha dato la forza di reagire, a chi nonostante le difficoltà mi ha porto la mano. Ve ne sarò per sempre grato. Per quanto riguarda la gara sono riconoscente ai miei compagni-amici. Da Leonardo Basso, che ha fatto un enorme lavoro nella prima parte, quello che non si vede ma è indispensabile, a Samuele Battistella, fondamentale nell’interpretazione della gara, in avanscoperta nella seconda parte, che mi ha permesso di risparmiare energie fino al gran finale, passando per tutti gli altri (Gianni Moscon, Christian Scaroni, Antonio Nibali, Gianmarco Garofoli e Fabio Felline) che hanno rintuzzato ogni attacco. Fondamentali sono stati i nostri tecnici, i “Mourinho del ciclismo” Beppe Martinelli e Orlando Maini che ci hanno motivato alla grande, e tutto lo staff. I massaggiatori Oscar Saturni e Michele De Biasi, il meccanico Alessandro Stocco, l’autista del bus Federico Borselli e il dottor Emilio Magni. È stata una vittoria di squadra».
Al mattino avresti scommesso su di te?
«Nì. Ero consapevole di stare bene. Nella prova contro il tempo di due giorni prima mi ero ben difeso. Non sono uno specialista, ma arrivando dalla Mtb e dal ciclocross sapevo che allenandomi potevo limitare i danni su un percorso adatto alle mie caratteristiche. Quel giorno avevo davanti a me una pagina bianca, ancora tutta da scrivere, ma ero sereno. Avevo la mia famiglia con me, una squadra motivata e sapevo che il percorso era adatto alle mie caratteristiche. Avrebbe premiato atleti di fondo, che riescono a tenere duro nelle corse impegnative. Detto questo il Campionato Italiano è sempre un terno al lotto, per certi aspetti è imprevedibile e tante volte mi era andata male nelle categorie giovanili, ma questa volta è filato tutto liscio e alla fine la ciambella è uscita con il buco».
Chi ci credeva era Beppe Martinelli, che alla vigilia ci aveva detto sicuro: “vinciamo noi”.
«Martino è un numero 1. In ammiraglia c’era e c’è sempre lui, leggere che potrebbe lasciare la squadra a fine 2023 dopo 14 stagioni è davvero strano. Quando l’ho incrociato sul percorso, con il suo carattere determinato mi ha urlato: “Vai Velasco, vai”. Io gli ho sorriso e gli ho risposto “Quando è il momento, ci provo”. Sono scattato poco dopo. Negli ultimi chilometri ho cercato di restare calmo e cogliere l’attimo. Avevo battezzato la ruota di Matteo Trentin, che sulla carta era il più veloce, fin dalla discesa. Quando si parla di sprint non ci pensano mai a me, in quelli di gruppo non mi butto perché ho paura, ma in quelli ristretti posso dire la mia. Ho visto come si sono posizionati gli altri e ho deciso di buttarmi sulla destra senza prendere rischi, a 200 metri dal traguardo».
Hai vinto con il dorsale numero 17.
«Una volta ero scaramantico, ora sono più razionale e tranquillo. Al mattino il mio procuratore Luca Mazzanti mi aveva detto “hai il numero buono”. I miei numeri fortunati sono il 7 e il 16, con il 17 non avevo mai vinto prima d’ora, ma mi è sempre piaciuto. Al casinò in vacanza puntavo sempre sul 17».
Hai pianto più a Comano Terme o quando sei diventato papà il 12 ottobre scorso?
«La nascita di un figlio è un’emozione che non si può equiparare a niente, è qualcosa che ti toglie il fiato, però vincere il titolo nazionale è stato altrettanto bello perché mia figlia era lì ad aspettarmi al traguardo. Consumeremo le immagini di quel giorno a furia di rivederle. Ho sognato tante volte di conquistare questa maglia stupenda. Riuscirci davanti alla mia famiglia è stata un’emozione fortissima, che mi sono goduto al cento per cento».
La maglia tricolore è venuta con te al mare...
«Avevo già in programma di staccare un po’. Dopo il Giro ho dovuto recuperare. Mi sono ammalato quando eravamo a Viareggio, finire quella tappa è stata una guerra. Ho cercato di dare un colpo di coda nella frazione di Bergamo, ma non sono riuscito a ottenere niente di più di un sesto posto. Ho corso lo Svizzera per preparare l’Italiano e già dopo la crono tricolore avevamo stabilito che andassi al mare. Ora sono all’Isola d’Elba. A Procchio sono stato accolto come un re, con le strade addobbate di verde, bianco e rosso, e tanta gente a festeggiarmi».
Hai vissuto la vicenda Gazprom Rusvelo da protagonista, sei tra i corridori che facevano parte del team russo costretto a chiudere i battenti dalla guerra.
«Sì, è stato un vero peccato. Qualcuno, come il sottoscritto, alla fine si è risistemato più che bene, ma tanti compagni e membri dello staff sono stati costretti a dire addio al proprio lavoro, travolti da una situazione davvero complicata. Ottimi professionisti, che ci mettevano il cuore, si sono trovati dall’oggi al domani senza contratto. Mi è dispiaciuto molto per quello che è successo, lo sport dovrebbe essere più distante dalla politica».
Ti sei fatto un regalo?
«Direi che basta la maglia. Più che a oggetti materiali ora come ora penso a trascorrere tempo prezioso con famiglia e amici, quello è oro. Ho offerto volentieri da bere ai compagni e anche agli “avversari”, che giù dalla bici sono amici. Lorenzo Rota, per esempio, anche se comprensibilmente ha fatto fatica a digerire un altro secondo posto all’Italiano, dopo un garone in cui mi ha sorpreso partendo da lontano, per me resta un collega di cui ho grande stima e una persona piacevole con cui trascorrere del tempo. La sua compagna ha seguito la corsa con la mia e Capodanno lo abbiamo passato insieme con altri ragazzi che vivono a San Marino come noi».
Non ci credo che un pensierino ad allargare la tua collezione di mezzi d’epoca non ti è venuto.
«Beh, quello indipendentemente dalla vittoria (ride, ndr). Ho un’Alfa junior del 1971 che però ora è a riparare perché babbo ha fatto un incidente; una Ducati S4RS; una Vespa 150 del 1957, una 50R del ’56, ma anche la classica 50 Special con la quale vado in giro sui colli bolognesi, come canta Cremonini. In garage c’è ancora spazio...».
A chi dedichi il successo più bello (finora) della tua carriera?
«Innanzitutto alla mia fidanzata Nadia, alla nostra bimba Diletta - che per la prima volta è venuta a vedermi correre - e a chi mi sostiene sempre, a partire da famiglia e amici. Con un pensiero anche a chi non c’è più come il mio amico Giulio, il nostro massaggiatore Umberto (Inselvini, a cui aveva già dedicato il successo nella terza tappa della Vuelta Valenciana a inizio febbraio, ndr) e Gino Mäder, che ci ha lasciato pochi giorni fa».
Come possiamo definirti geograficamente parlando: elbano o bolognese?
«Elbano di Bologna (sorride, ndr). Sono nato nel capoluogo dell’Emilia Romagna, come mamma Elisa e come mia figlia. In città ho studiato all’istituto tecnico aeronautico (Simone ha il brevetto di volo e ora è iscritto per via telematica a Scienze Motorie, gli mancano 8 esami, ndr), ho tanti amici. Papà Gabriele è isolano e lì sono cresciuto, all’Elba ho il cuore e torno ogni volta che posso per rigenerarmi al mare. Babbo aveva una scuola di vela, io a 16 anni ho fatto l’istruttore di windsurf. Ringrazio tutti per il sostegno, da qualsiasi parte arrivi. Mi sento cittadino del mondo e voglio tenere alta la bandiera italiana. Sono orgoglioso di poterla sfoggiare per un anno intero».
da tuttoBICI di luglio