È sempre stata di poche parole, riservata e schiva, Fabiana Luperini. Ha sempre preferito far parlare i risultati quando correva in quegli anni, tra i Novanta e Duemila: sui pedali è sempre stata piuttosto... chiacchierona, vincendo in carriera cinque Tour de France e tre Giri d’Italia oltre ad un’altra infinità di corse.
È stata la Pantanina, in quegli Anni magici del Pirata che infiammava le strade del mondo mentre Fabiana alzava ancora di un po’ l’asticella del ciclismo femminile italiano, che in quelle stagioni era ancora troppo bassa. È stata per anni un anti-personaggio, diventandolo suo malgrado con i risultati, perché come il Pirata in salita aveva qualcosa di più delle altre e nell’immaginario collettivo suonava bene quel “Pantanina”, che faceva seguito alla “mamma volante”, portata agli onori delle cronache da Maria Canins.
Se oggi Elisa Longo Borghini, Marta Bastianelli e Marta Cavalli, Elisa Balsamo e via elencando possono dire di aver portato il ciclismo femminile in una dimensione mai raggiunta prima, un grazie va detto anche a Fabiana, così come alle varie Luigina Bissoli e Mary Cressari, Morena Tartagni e Francesca Galli, Imelda Chiappa e Roberta Bonanomi, Alessandra Cappellotto e Giorgia Bronzini. Ognuna ha portato il proprio contributo, ognuna ha dato il suo fondamentale colpo di pedale.
Oggi Fabiana si trova suo malgrado nuovamente sulle prime pagine. La sua Team Corratec, formazione maschile Professional è stata invitata al prossimo Giro d’Italia e lei, direttore sportivo di questo team toscano, ha la possibilità di affrontare la corsa rosa maschile non in bicicletta come Alfonsina Strada (nel 1924, ndr) ma in ammiraglia, al seguito dei suoi ragazzi.
Fabiana, dopo tanti Giri al femminile, ora si profila quello degli uomini, e sabato 6 maggio da Fossacesia Marina ci sarà anche lei: qual è il suo sentimento?
«Intanto vedremo se sarò in squadra, sono l’ultima arrivata e sarà Serge Parsani, il nostro team manager, a decidere la squadra e lo staff per il Giro. È chiaro che ci spero e sarei contenta di far parte della comitiva, almeno per qualche tappa sarebbe bello esserci. Una cosa, comunque, è certa: l’invito ricevuto da Rcs Sport (ente che organizza la “corsa rosa”, ndr) è una bellissima cosa per il nostro team, che è giovane ma ha già fatto passi da gigante. Se poi sarò al via e sarò chiamata a fare qualche tappa o tutte ne sarò felicissima: come si fa a non esserlo?».
Quanta prudenza…
«E un po’ di scaramanzia…».
Si rende conto di essere anche ispirazione e modello per tante altre ragazze?
«Sì, lo sento chiaramente. Ed è altrettanto chiaro che mi fa piacere, ma trovo anche strane tutte queste attenzioni: non c’ero più abituata».
Lei sta facendo la storia. Prima di lei fu la statunitense Robyn Morton al Giro del 1984, che era sull’ammiraglia dell’americana Linea MD-Gianni Motta. L’anno scorso è stata la volta di Cherie Pridham, prima donna diesse nel World Tour, ora lei, che ha debuttato in ammiraglia il 30 gennaio scorso al Saudi Tour.
«E di questo sono molto felice e orgogliosa. L’idea di guidare dei ragazzi è bellissima quanto stimolante. Ci sono tanti giovani, tutti molto bravi, che hanno ambizioni e voglia di fare. I ragazzi mi rispettano e quello che mi fa piacere è che conoscono il mio passato, la mia storia di atleta».
Quali sono le differenze nella gestione tra una squadra di ragazze e quella di ragazzi?
«Tra i ragazzi c’è una coscienza professionale più consolidata. Tutti sono molto professionali, consapevoli di quello che va fatto. Tra le ragazze c’è ancora una profonda disomogeneità, anche se rispetto ai miei tempi sono cresciute tutte moltissimo. Le big sono ultra professionali, molto attente e maniacali, le altre un po’ più naif. Su una cosa però c’è grande differenza: nell’approccio con gli atleti. Se io faccio davanti a tutti un complimento ad un ragazzo, i compagni di squadra sono sereni. Se faccio lo stesso complimento ad una ragazza, le altre generalmente non la prendono benissimo. In sintesi: gestire i ragazzi è molto più semplice. Che dire, siamo così, dolcemente complicate».
È vero che in squadra si fa chiamare per nome?
«Certo, che problema c’è? Mi chiamo Fabiana e così mi chiamano».
Cosa significa per lei il Giro d’Italia?
«È la corsa delle corse, l’evento ciclistico per eccellenza. Per me era già così il Giro delle donne, ma quello degli uomini è la storia, uno degli eventi più importanti del mondo. Ho vissuto da tifosa i Giri di Moser e Saronni e mi sono appassionata alla loro rivalità, ai loro scontri, fatti di vittorie e polemiche. Io tifavo per Saronni, come il mio babbo che mi portò a vedere la Sanremo che Beppe vinse con la maglia di campione del mondo. Ora poter vivere per la prima volta dall’interno una corsa così importante mi esalta. Mi creda, non sto già nella pelle».
Il soprannome Pantanina le piaceva?
«Assolutamente sì. Significava essere accostata a Marco, il miglior scalatore del mondo, uno dei più forti di tutti i tempi, per me il più grande in assoluto. Voleva dire che forse la miglior scalatrice del mondo, in quel momento, ero io».
Il ciclismo femminile sta vivendo nel mondo un momento magico, quello italiano una vera età dell’oro.
«Le ragazze sono toste, prima di vincere devono imparare a superare i pregiudizi che, purtroppo, ancora oggi esistono, anche se in misura molto minore. Oggi assistiamo ad un gran bel movimento, che è cresciuto tanto e crescerà esponenzialmente in futuro. L’Uci (l’organizzazione mondiale del ciclismo, ndr) ha fatto un grande lavoro, dando una notevole dignità a tutto il movimento e, devo dire che i team maschili di World Tour che hanno aperto alle donne hanno fatto altrettanto con grandissima professionalità. Diciamo che il movimento femminile ha davanti a sé un grande futuro, finalmente».
Però anche nel ciclismo femminile, il personale che gravita attorno ai team è per lo più composto da uomini…
«Verissimo anche questo e sono certa che a breve questa tendenza cambierà, anche se io sono e resto a favore della meritocrazia: chi è brava va avanti, senza quote rosa, ma anche senza pregiudizi».
da tuttoBICI di febbraio