Questa storia ha poco di ciclistico, eppure è un omaggio ai tanti che frequentano e animano il grande villaggio globale delle due ruote, con i loro bisonti della strada. Con i loro autoarticolati da migliaia di euro. Con quelle case viaggianti che fanno del ciclismo uno sport nomade e itinerante, che esalta le due ruote, ma si muove su sei e forsanche di più. È un omaggio ai vari Federico Borselli o Francesco Villa che dir si voglia, a questi infaticabili autisti che scorrazzano frotte di ciclisti e di personale in giro per il mondo e per non annoiarsi - non si annoiano mai - fanno di tutto e di più, perché questi sono davvero dei “trapezisti” della strada capaci di volteggiare da una parte all’altra, con la leggerezza di Bolle.
Questa storia ha poco di ciclistico, anche se lei, Laura Broglio, 32 anni di Rovigo, viene da una terra di ciclismo e di ciclisti. Per lei la passione non è un ingranaggio, ma un motore, che l’ha conquistata a tal punto da lasciare, dopo il liceo classico, l’università. Folgorata non sulla via di Damasco, ma su quella che portava a Misano Adriatico.
«Io sono figlia di una giornalista del Gazzettino e di un consulente aziendale - racconta con quel sorriso accomodante che invita al viaggio e alla narrazione -, ma ho sempre avuto la passione per i motori. Un giorno, come spesso succede con le compagnie, mi sono fatta convincere da un gruppo di ragazzi e sono andata con loro al raduno del camionista a Misano Adriatico. Da una parte lo spirito goliardico di chi esponeva i camion più bizzarri e rivisitati, dall’altra corse vere e proprie con quei giganti della strada. Ricordo che fu un fine settimana bellissimo, adrenalinico al massimo. Ad un certo punto mi chiesero se avevo voglia di provare a salire su un autoarticolato: non me lo faccio ripetere due volte. Per la prima volta impugno il volante e mi dico: io devo fare questa cosa! In quel periodo studiavo Lettere, mollo tutto e per me incomincia una nuova vita. È stato amore a prima vista, anche perché quei camion erano già bellissimi. Di una comodità assoluta, e molto più fruibili di un tempo. Insomma, se una donna vuole cimentarsi in un lavoro così, oggi lo può fare, perché la tecnologia ti è venuta in soccorso. Anche a livello estetico sono di una bellezza mozzafiato».
Chiude i libri e apre un libretto, Laura. C’è da studiare e fare pratica, soprattutto c’è da prendere la patente. Prima la C-E, camion più rimorchio. E poi l’abilitazione professionale CQC (Carta di Qualificazione del Conducente, ndr). «La spesa si è aggirata attorno ai 5 mila euro, dicono che costi un botto - mi racconta Laura -, ma se lo devo paragonare a qualsiasi master universitario, probabilmente è davvero a buon mercato: c’è di peggio».
Comincia a fare l’autista a 24 anni, prima per un’azienda che le dà in dotazione un camioncino per fare le piccole prese. «Era un due assi, un Eurocargo della Iveco – mi racconta -. E poi ho iniziato a fare la tratta centro-nord Italia, nel settore dell’ortofrutta. Poi, finalmente, ho fatto un salto: eccomi su un Volvo FM a tre assi e da quel momento mi sono sentita per davvero una camionista».
Viaggi lunghi, ma non lunghissimi. Una delle tratte più battute quella verso Firenze. Ed è lì, che oltre a trasportare ortofrutta, si lascia trasportare… dal cuore. L’incontro con quello che sarà suo marito è puramente casuale, ma è il classico colpo di fulmine. «Matteo (questo è il nome del Cupido della strada, ndr) ha un anno più di me e lo incontro per puro caso a Firenze: e pensare che lui abitava a soli 5 km da casa mia, ma non ci conoscevamo assolutamente. Mai visti. Mai incrociati. Galeotto è un bancale e poi la chiusura serale dell’autostrada. In altri momenti sarebbe stata una rottura, invece è stato motivo per lo scambio dei rispettivi numeri di telefono. Lui fu molto premuroso e mi insegnò una strada alternativa. Lo seguii». E lo segue ancora.
Guida autoarticolati da 16 metri e cinquanta, per due metri e mezzo di larghezza. Sono già otto anni che fa questo tipo di mestiere «e sono felicissima di farlo, non me ne sono mai pentita, anzi». Con Matteo è assieme dal 2015, nel 2018 nasce il piccolo Alberto, l’anno scorso il coronamento del loro amore. «Ci siamo sposati con calma, anche perché nel frattempo c’è stato il Covid che ha rallentato un po’ tutto», dice lei.
Nel 2018, quando è nato Alberto, papà Matteo ha aperto un’azienda di trasporto di proprietà. Un bel salto, fatto chiaramente anche da Laura. «Siamo diventati in pratica dei padroncini - spiega -. Oggi siamo in quattro, con altrettanti mezzi. Io sono sempre sul camion, anche se le mie tratte sono un pochino più leggere, per consentirmi di seguire meglio il bimbo, che al mattino porto all’asilo e poi dalle 17 sono a sua disposizione. Diversa è la vita di mio marito, che tutte le mattine si sveglia alle 3 per portare via sabbia terra con le vasche, quindi sfusi, alle varie acciaierie o piuttosto alle aziende di ceramica, che poi fanno piastrelle, piatti e quant’altro. Gli altri nostri due colleghi fanno uno l’ortofrutta, mentre l’altro la famosa tratta su Firenze. Io sono fissa a Ferrara e lavoro per il petrolchimico. Da autista guido poco, ma va bene anche così».
Parla con naturalezza Laura, e nel suo raccontare non c’è nulla di eroico, ma tutto è nella norma, mentre il suo “Beat Yesterday” altro non è che un premio ad una persona normale che fa solo una vita non convenzionale: tutto qui. «Ho un bel numero di follower sui social, solo perché sono donna e faccio un lavoro che nell’immaginario collettivo è ancora prettamente maschile. Sono donna e mamma, sorretta da una grande passione per questi bisonti della strada che sono però più maneggevoli e sicuri di una moto. È vero, ho fatto studi classici, avrei anche potuto e forse dovuto - questo non ve lo nego è un po’ il mio cruccio - finire la facoltà di Lettere, ma sono felice così. Faccio la vita che amo fare e la faccio con la persona che amo. Il mio “Beat Yesterday”? Ho fatto studi classici e alla mattina, però, giro la chiave di un camion. Nulla di eroico, ma forse particolare. Se c’è qualcosa che mi pesa? Sul camion la vita scorre veloce ed è molto totalizzante. Lavori anche per 15 ore e molti dei miei colleghi faticano ad avere una vita privata».
Nessun problema in un mondo prettamente maschile, Laura da questo punto di vista si sente assolutamente a casa. «È chiaro, da donna c’è ancora qualche pregiudizio, ma la situazione è migliorata di molto, si sono fatti tanti passi in avanti. All’inizio non le nascondo che ho dovuto conquistare la fiducia un po’ di tutti, ma una volta che sono stata accettata alla fine sono anche trattata meglio. Se sei donna ci sono attenzioni maggiori rispetto ad un uomo, diventa quasi l’opposto. Soprusi? Mai!».
La cosa di cui va maggiormente fiera? Essere stata riconosciuta come affidabile sotto l’aspetto tecnico. Laura come detto è molto social ed è parecchio seguita nell’ambiente, per via della sua competenza. Scelta da Garmin come Ambassador per il settore dei mezzi pesanti, lei che è un peso piuma, ha però sul mercato il suo peso. «Hanno una linea di prodotti molto bella e i miei test-drive sono seguitissimi. Il fatto che sia stata intercettata da Garmin mi ha reso felice, anche se ancora adesso mi chiedo: perché? Nella mia storia non c’è niente di eclatante o straordinario, è solo una piccola storia».
A sentirla parlare sembra di ascoltare Gianni Bugno, uno dei campioni più amati nella storia del ciclismo. Uno che vinceva i mondiali (due) e non solo, e al termine di ogni vittoria, chiedeva scusa agli avversari. Per i suoi successi mondali, chiese per premio la possibilità di guidare il motorhome della squadra. Chiedere a Giacomo Carminati, che della Gatorade era lo storico conducente. Gianni Bugno come Laura Broglio: visto che il legame con il ciclismo c’è.
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