Poi ci si interroga e ci si chiede il perché. Ma è sufficiente parlarsi e ascoltare, chiedere lumi e verificare qualche notizia per avere lo scenario più chiaro. Sono gli stessi procuratori, che qualche responsabilità ce l’hanno, a portare sul banco degli imputati i team di base: esordienti e allievi in particolare. Formazioni di ragazzini con i loro bravi preparatori laureati in scienze motorie, alcuni provenienti anche dal Centro Studi della Federazione, che hanno come unico scopo quello di soddisfare il proprio ego ed estro. Per loro non esistono l’attività ludica, il gioco o il piacere di correre: c’è da selezionare e scremare, metterli tutti alla prova, perché il ciclismo non è sport per mammolette. Mi hanno raccontato di ragazzini che fanno chilometri e chilometri dietro moto, o che in un anno, tra gare su strada e fuoristrada in nome della salvifica multidisciplinarietà, accumulano nelle gambe qualcosa come 80, dico 80, giorni di corsa.
Insomma, fanno sul serio, maledettamente sul serio, con tutto quello che ne consegue dopo, per un’attività esasperata e para-professionistica fatta in età scolare. Ragazzi che imparano a fare i grandi quando sono ancora piccoli. Che stanno attenti alla massa grassa e fanno prima tutto quello che dovrebbero fare dopo. All’estero le squadre incubatrici tirano su, senza pressione, insegnando ai loro ragazzi soprattutto a perdere.
Stefano Oldani me l’ha anche raccontato: poteva restare in Italia e provare a vincere qualcosa di più, molto di più, visto che correva con la blasonata Colpack di Beppe Colleoni, Antonio Bevilacqua e Rossella Di Leo, ma dopo una valutazione attenta, proprio anche con il team bergamasco, ha deciso di mettersi in gioco: qualche vittoria in meno, per qualche sconfitta in più. Le vere medaglie. Ha fatto la gavetta, ha corso tantissimo tra i professionisti per imparare. Ma il problema non sono le formazioni under 23 o Continental, sono quelle che gestiscono i corridori prima. L’esasperazione parte da bimbetti, tra gli allievi siamo al limite della follia. Parlando con alcuni tecnici di team belgi e olandesi, spagnoli e anglofoni, loro hanno confermato il pensiero: dalle loro parti, a quell’età, si corre solo per divertimento. Non si guarda ai risultati, non si tiene conto del peso. Non interessa che tu abbia la bicicletta migliore, anzi, meglio che tu faccia vedere quello che vali in sella ad un cancello. Se vinci bene, se perdi bene lo stesso. La sconfitta, anche per Merckx, era la regola, non l’eccezione. Forse i Comitati Regionali dovrebbero buttarci l’occhio e la Federazione verificare che anche dal Centro Studi escano più educatori e meno preparatori. La parola d’ordine dovrebbe essere: più wafer, meno watt.
QUALCUNO LO AIUTI. È stato l’anno zero, il primo di un Giro autoprodotto da Euro Media Group per conto di Rcs Sport. Un primo passo verso nuovi traguardi, che mirano chiaramente a valorizzare il prodotto Giro: partner e sedi di tappa. Sia di partenza che di arrivo. C’è però da salvaguardare la corsa e da accontentare i tanti appassionati che stanno ore davanti alla tivù. Sulle immagini nulla da dire - ottime - sulla regia siamo alla fase di lallazione. Primi vagiti, prime paroline balbettanti e poco comprensibili, ma c’è poco da scherzare o prenderla sotto gamba.
Comprendere i movimenti della corsa è fondamentale. Seguirne le fasi è il minimo sindacale. Invece, per giorni per non dire settimane, la corsa è stata mortificata. In alcune tappe, quando c’era la fuga, il gruppo maglia rosa quasi non è stato preso in considerazione. Nella tappa della Marmolada, quella che ha poi deciso la “corsa rosa”, al momento dello scatto di Hindley, Carapaz è stato dimenticato. L’attimo topico di questa corsa andava raccontato con attenzione e seguito meglio. Magari con le doppie immagini, per mostrarli entrambi nello sforzo supremo e finale. Invece, era tutto un balletto di immagini da far venire il mal di testa, che non hanno aiutato la comprensione. Per non parlare poi di quella dannatissima striscia bianca che si chiama traguardo, che per alcuni è stata mostrata, per altri no, anche nelle volate millimetriche.
Insomma, un regista che avrebbe bisogno di un tutorial e non sono certo che ce l’avesse. E se c’era, era chiaramente inascoltato o qualcosa di simile. Mi hanno assicurato che Angelo Carosi - il regista - è il numero uno del calcio. Un mago nella regìa delle partite. Il ciclismo, però, è cosa diversa. Forse anche lui dovrebbe chiedere aiuto, capire che questo è uno sport molto più complesso di quanto possa sembrare, ma per farsi aiutare bisogna prima capire di averne bisogno: e qui sta il punto. Qualcuno lo aiuti. Non tanto per lui, ma per noi.
Editoriale da tuttoBICI di giugno