È uno dei nostri, Attilio Nostro. Vescovo di Mileto, Nicotera e Tropea, Attilio Nostro è considerato dei nostri perché pedala e ama il nostro sport «essenza e sublimazione dell’uomo in terra», come è solito dire. Ama il ciclismo fin da piccino, nonostante una “volata” nel mondo del basket, come ala della Pallacanestro Palmi, città che diede i natali al Nostro il 6 agosto del 1966.
Devoto a Nostro Signore dal 1983 quando sente la chiamata, anche se l’anno prima resta colpito sulla via di Damasco «da quel dio greco» che di nome fa Francesco Moser, e del quale è da sempre supertifoso. «Una presenza scenica pazzesca, un modo unico di interpretare le corse…», mi spiega con trasporto.
La vocazione è accelerata da una tragedia, la morte di un fratellino vissuto il tempo di una farfalla, e per dirla con De André come tutte le più belle cose visse solo un giorno, come le rose. Francesco, questo è il nome del piccolo Nostro, nasce a febbraio dell’82 e muore a giugno. «Quel fatto mi ha segnato profondamente il mio animo e mia ha avvicinato a Dio, che era già in prossimità del mio cuore, già albergava in me – mi racconta don Attilio che incontro a Milano, in compagnia di alcuni amici. Mimmo Bulzomì, uno che in fatto di ciclismo ha davvero una malattia incurabile; don Domenico Dicarlo e Giovanni Muzzopappa -. Nell’87 entro in seminario. L’amore per il ciclismo? No, quello non l’ho mai abbandonato: vero, autentico e profondo. Uno sport che mi ha sempre affascinato per il suo modo di mettere a nudo gli uomini, soprattutto nei momenti di difficoltà. L’uomo che non cede, resiste e si salva. L’uomo che arriva fino in fondo, e non importa in che posizione. L’importante è raggiungere la meta. Un traguardo. Un fine».
Membro effettivo della Vatican Cycling, nonché assistente spirituale della sezione della polisportiva Athletica Vaticana, la Cycling entrata a far parte dell’Unione Ciclistica Internazionale il 24 settembre a Leuven, grazie all'abile lavoro diplomatico sportivo di Renato Di Rocco, Attlio Nostro parlerebbe per ore di ciclismo, di certo non gli mancano gli argomenti.
«La scelta di Athletica Vaticana di promuovere il ciclismo – spiega Nostro - nasce dalla consapevolezza della popolarità di questo sport nel mondo vaticano, e non solo. E, come afferma Papa Francesco, pedalare con la bicicletta “mette in risalto alcune virtù come la sopportazione della fatica – nelle lunghe e difficili salite -, il coraggio – nel tentare una fuga o nell’affrontare una volata -, l’integrità nel rispettare le regole, l’altruismo e il senso di squadra”. Sono proprio queste le parole rivolte da Papa Francesco (9 marzo 2019 – Congresso annuale dell’Unione Ciclistica Europea, che, in questa occasione, ospita anche l’Assemblea della Confederazione Africana di Ciclismo, ndr). E sempre il Papa, in quella occasione, propose una riflessione che per Athletica Vaticana è l’icona del proprio servizio: “Durante le gare tutta la squadra lavora unita (…) e quando un compagno attraversa un momento di difficoltà, sono i suoi compagni di squadra a sostenerlo e ad accompagnarlo. Così anche nella vita è necessario coltivare uno spirito di altruismo, di generosità e di comunità per aiutare chi è rimasto indietro e ha bisogno di aiuto per raggiungere un determinato obiettivo”».
Il legame tra Vaticano e ciclismo ha radici profonde ed è stato esaltato in occasione delle indimenticabili partenze del Giro d'Italia nel 1950 con Papa Pio XII e nel 1974 con Papa Paolo VI e ancora davanti agli occhi abbiamo l'udienza di Papa Paolo Giovanni II in occasione del Giubileo del 2000, otto giorni dopo la morte di Gino Bartali. «Bartali è un’altra figura per me essenziale e di riferimento. Un campione di atleta, ma ancor di più di uomo – aggiunge il vescovo -. Non a caso, nel mio piccolo, sto lavorando per la causa di beatificazione, per la sua assoluta grandezza morale. E come ebbe a dire il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, «la beatificazione di Bartali non aggiunge nulla a questo uomo, ma fa bene alla chiesa…».
Papà Pietro era un grande appassionato di ciclismo e di Bartali. Mise in bicicletta uno dei suoi figlioli, Gaetano, classe ’65, bravo dilettante con la maglia del Mobilificio Di Iorio di Palmi. «Era un buon scalatore, con un fisico moderno, alla Miguel Indurain», spiega don Attilio. «Papà Pietro era avvocato, mamma Maria casalinga. Elementari, medie e superiori a Palmi: esco con un diploma in ragioneria. Papà che lavorava all’Inail, chiese il trasferimento a Roma per consentire a me e a mio fratello di proseguire gli studi e di iscriverci all’università. Gaetano ingegneria, io economia e commercio. Entrambi lasciamo dopo pochi esami. Esco dall’Università, entro in Seminario: è il 1987. Il 2 maggio 1993, vengo ordinato prete. Prima vice-parroco (due anni a Santa Maria delle Grazie in zona Prati a Roma; cinque anni al Gesù Divino Lavoratore in zona della Magliana; poi a San Giuda Taddeo in zona Appio Latino, sempre a Roma; infine a San Mattia, zona Montesacro, dove dedico l’oratorio a Gino Bartali, non prima di aver chiesto il permesso a Papa Francesco, il quale risponde: per l’oratorio basta un parroco, per canonizzare ci vuole un Papa».
È un parroco in modalità Moser, sempre all’attacco, mai domo o fermo. È un fiume in piena, di parole e di buoni propositi. Se un parroco deve evangelizzare, lui lo fa, con naturalezza. Come il suo idolo di Palù di Giovo tirava i lunghi rapporti, il vescovo di Palmi va via rotondo. «Mi appassiono alle ciclostoriche, corro anche la Chianina le la Imperiale. Ma quando posso, scrivo anche di ciclismo, sull’Osservatore Romano, per spiegare la bellezza di uno sport che, come ebbe modo di scrivere Gino Bartali all’amico Card. Elia dalla Costa “faticare in sella è ciò che più si avvicina alla preghiera”. E sempre su Bartali e su l’Osservatore Romano, ho scritto dell’attentato di Togliatti, rendendo noto un documento poco conosciuto, redatto da un poliziotto in forza al raggruppamento della Celere di Milano: “Dopo l’annuncio dell’attentato a Togliatti, il comandante del raggruppamento ricevette l’ordine di farci schierare nelle strade del centro, con particolare riguardo alla zona del Duomo. Era un pomeriggio afoso e l’atmosfera che si respirava aveva del surreale: la gente sembrava impazzita, chi piangeva, chi minacciava di scatenare una guerra (...) Tutti gli uomini del mio contingente erano armati di pistola, mitra e sfollagente: gli ordini erano di contenere ogni intemperanza della gente, ma come? Eravamo quattro gatti dispersi in un mare di folla inferocita. A un tratto, si è diffusa la voce della vittoria di Bartali in Francia: non so come, la gente che ci circondava iniziò a ridere e ad abbracciarsi, coinvolgendo anche le guardie del contingente ai miei comandi. Ci trovammo in balìa festosa di persone che, fino a un momento prima, ci avrebbero volentieri sparato”. Questo per dire che cosa? Che non è una leggenda il fatto che Gino Bartali, con la sua impresa, calmò gli animi, ci sono documenti e rapporti che lo testimoniano».
Uomo di testimonianza è anche lui, il Vescovo Attilio Nostro, che sogna di poter dare vita al velodromo di Mileto, che già nel 1991 Mimmo Bulzomì fu lì lì per realizzare. «È un sogno, un’ambizione per tutta la comunità e la Calabria – mi spiega -. Vorremmo realizzarlo in località Margione. C’è un progetto, che va ripreso in mano, rivisto, rivalutato e rimodellato. Tutto fu fermato dalla burocrazia, l’avversario più duro da sconfiggere, più duro di Eddy Merckx. Ma noi siamo ciclisti, e non ci fermiamo davanti a nulla. So che questo impianto potrebbe essere una opportunità per le future generazioni, per le nostre ragazze e i nostri ragazzi. È nostro dovere provarci, con tutte le nostre forze, da buoni passisti».
La bicicletta ce l’ha, trovata per caso nel giorno del funerale di Andrea Bresci. «Tornando a casa mi sono fermato a Calenzano a fare un saluto all’amico Giovanni Nencini, aveva un telaio della Legnano, verde oliva come quello di Gino Bartali: lo presi». In verità è andato a trovare anche Ernesto Colnago, per festeggiare i 90 anni del Maestro. «Ora ho anche una delle sue. Una ragione in più per fare anche il velodromo». E non smettere di pedalare, come in una preghiera.