Da bambino Fabio Aru mai avrebbe pensato di diventare un ciclista professionista, figurarsi di iniziare una nuova vita a 31 anni. Il sardo ha dedicato alla sua passione più grande oltre 15 anni, durante i quali ha imparato che il tempo corre veloce ed è il bene più prezioso di cui un uomo può godere. Il suo amore per la bici l'ha costretto a lasciare la sua stupenda isola da giovanissimo, a trascorrere mesi e mesi lontano dagli affetti, a sopportare grandi sacrifici ma allo stesso tempo gli ha permesso di conoscere il mondo, di fare carriera, guadagnare soldi e fama, di conquistare gare importanti e indossare le maglie più ambite.
Il suo palmares recita 9 vittorie, fra le quali spicca la Vuelta a España 2015, 1 tappa al Tour de France, 3 al Giro d'Italia e 2 alla Vuelta. Nel suo armadio spiccano la maglia gialla, quella rosa e quella rossa, oltre a quella tricolore di campione italiano nel 2017. Nella testa, nel cuore e nelle gambe di Fabio resta molto di più tra ricordi, emozioni ed esperienze indelebili.
Come stai Fabio?
«Bene, grazie. Sono tornato da due giorni a Lugano con Valentina e la piccola Ginevra. Al ritorno dalla Spagna sono stato qualche giorno in Piemonte visto che la bimba era dai nonni materni. Mi sto godendo un po' di tranquillità a casa, la vita normale a cui un ciclista non è abituato. Fra qualche giorno volerò in Sardegna per vedere i miei genitori. Mio fratello è partito per un anno di Erasmus in Russia giovedì scorso, avrò tempo anche per andare a trovare lui a Mosca. Guardandomi indietro rifarei tutto, è stato bello. Dopo una vita di corsa però ho sentito proprio la necessità di prendermi il mio tempo».
Stai seguendo gli Europei?
«Certo. Ho visto la squadra azzurra aggiudicarsi il team relay, Filippo (Ganna, ndr) d'argento nella prova a cronometro. Non ho cambiato abitudini da un giorno all'altro, sono sempre documentato sul mondo della bici, non ho smesso perchè ero nauseato. Forse in qualche intervista sono stato frainteso, qualche giornalista alla Vuelta non ha inteso quello che volevo dire. Ritirarmi dall'attività agonistica non è una liberazione, semplicemente una scelta di vita. Stare tanto lontano da casa è diventato sempre più difficile e sono arrivato a un punto in cui mi sono chiesto: voglio continuare a stare in giro per 220-230 giorni l'anno come nelle ultime stagioni? Non è che non mi piacesse più quello che ho sempre fatto, infatti in bici continuerò ad andarci».
Cosa ti resta di tutti gli anni trascorsi in sella?
«Un paio di lingue straniere parlate discretamente, tanti viaggi e conoscenze che mi hanno aperto la mente e insegnato a stare al mondo. Militando in squadre internazionali e visitando tanti paesi diversi ho imparato l'inglese e lo spagnolo, ora frequenterò una scuola di francese per imparare una terza lingua che può sempre servire. È da quando ero ragazzino che passo la maggior parte del mio tempo con altre persone, compagni di nazionalità straniere, con culture e abitudini diverse. Grazie al ciclismo ho imparato a muovermi e ho visitato svariati paesi, anche se più che hotel e strade un corridore non ha modo di vedere molto altro. Ho vissuto bei momenti così come ho ricevuto alcune delusioni, ma credo sia normale e accada a tutti».
Cosa prevede il programma della tua seconda vita?
«Le cose semplici che non ho avuto tempo di fare prima, a partire dallo stare più tempo a casa con la famiglia. Ai compleanni e le varie ricorrenze non c'ero mai. Di obiettivi in mente ne ho più di qualcuno, ma non ho ancora chiaro che strada intraprenderò. Per una volta non voglio essere affrettato, voglio prepararmi e valutare bene. Quel che è certo è che in qualunque cosa farò il mio impegno sarà massimo. Di certo non mi vedrete in ammiraglia come ds o al seguito di un team professionistico perchè vorrebbe dire stare in viaggio gran parte dell'anno e allora tanto valeva continuare a correre. Mi è già arrivata qualche mezza proposta dall'ambiente ma la mia nuova carriera non inizierà prima del 2022. Ho sempre preso decisioni di corsa, fin da quando due giorni dopo la maturità conseguita al liceo classico mi sono trasferito a Bergamo, questa volta voglio fare le cose con calma».
Lavorativamente parlando, come ti vedi tra qualche anno?
«In bici, sicuramente. Continuerò a pedalare perchè mi fa stare bene, per quanto riguarda la mia futura professione potrebbe essere inerente a questo ambito, come no. Mi piacerebbe anche vedere cosa c'è fuori, provare qualcosa di differente. Le scelte troppo affrettate che ho preso sono regolarmente risultate sbagliate. Voglio pensarci bene. Non ho intenzione di aprire un negozio dalla mattina alla sera o buttarmi in qualunque altro progetto senza vedere se è concretamente fattibile. Non aspettatevi colpi di testa. Un punto fermo di questo nuovo capitolo sarà la stabilità. Mi sono trasferito quando ero un ragazzino, ho trascorso metà della mia vità in viaggio tra ritiri, altura, gare, impegni con gli sponsor... Fa tutto parte del gioco e non rinnego nulla. Ho sempre fatto tutto con immenso piacere, ma sono arrivato a un punto in cui non ero più disposto a soffrire la mancanza di casa e degli affetti».
Vuoi dire qualcosa agli appassionati di ciclismo che, nel bene e nel male, ti hanno seguito?
«Sia nelle gioie che nei momenti negativi penso di aver dimostrato di dare sempre il massimo. Ci ho messo il cuore, sia quando ho raccolto tanto, che quando non ho raccolto niente. Nello sport alla fine il risultato è l'unica cosa che conta. Si sta poco a guardare cosa c'è dietro, ai problemi che deve affrontare un atleta, ma nell'ambiente tutti hanno visto che ho sempre fatto il professionista. Più di una persona mi ha suggerito di continuare all'80%, correndo un po' meno o evitando qualche ritiro e periodo in altura. Io però se faccio una cosa la voglio fare al meglio. Ho intrapreso la scelta di fermarmi nel rispetto di me stesso e del ciclismo, che sarà sempre la mia passione più grande ma non può prendersi tutto il mio tempo».