Alla fine la sua zucca l’ha trovata. Non trainata dai topolini ma mossa dalle sue belle leve. Massimo Boglia a suo modo è una Cenerentola del ciclismo. Alto, magro, con una bella faccia pulita e soprattutto una gamba che gli ha permesso di partecipare anche al gran ballo del professionismo. Poi però quando tutto sembrava compiuto o di li a compiersi, qualcosa si è inceppato, ma dalla zucca è saltata fuori una telecamera e ora può dire di aver coronato un sogno: fare il ciclista per divulgare sulle reti di Bike Channel lo sport più bello del mondo.
Sognava di diventare un grande corridore, Massimo Boglia. Giro. Tour, Vuelta… grandi corse per diventare grande. Magari anche popolare. In tivù ci sarebbe potuto andare da corridore vincente, invece si è trovato su un divano, a guardare gli altri. Ora, dopo aver fatto anche il magazziniere per una ditta di divani, in tuù ci è finitp per davvero e sono in molti a seguire lui sulle reti di Bike Channel. Ma andiamo per ordine.
«Lavoro nel negozio di papà, la Cicli Boglia a Corbetta – ci racconta -:tre vetrine in via Simone da Corbetta 16, una ventina di chilometri a ovest di Milano. La mia giornata è ormai scandita da uno spartito prestabilito: in negozio alle otto, aperti fino a mezzogiorno, poi dipende: se non mi guardano, se non mi controllano, prendo la bici da corsa e vado in fuga un paio d'ore. Poi torno, mangio e riapro, fino alle otto di sera». Con tanti ringraziamenti alla mamma Carolina che lo aspetta con i fornelli sempre pronti.
Papà Mario Boglia con la bici ha un coinvolgimento forte. E' stato ottimo pistard sulla fine degli anni Sessanta, imparando il mestiere al Vigorelli da Maspes, Gaiardoni e Pettenella, per poi battere Patrick Sercu - tre ori e un argento ai mondiali su pista - e fare i mondiali in Cecoslovacchia nel 1969, Brno. Poi nel 1995 apre il suo negozio a Bareggio, prima di trasferirsi a Corbetta: meccanico, artigiano, artista delle biciclette e rivenditore di fiducia di Colnago.
«Ernesto Colnago è come Enzo Ferrari: mitologia italiana nel mondo – dice Massimo, che ha anche una sorella, Francesca -. Mio padre mi ha insegnato tutto quello che so in fatto di biciclette: mi diceva in che modo fare una cosa e io la facevo in un altro; sbagliavo e la rifacevo come aveva detto papà e così funzionava».
Massimo è un tipo alla mano e molto easy: jeans e maglietta, pizza e coca-cola. Più semplice non si può. Nato di fianco alla basilica di Sant'Ambrogio a Milano, trentadue anni tra pochi giorni e in bicicletta da sempre. «Da bambino, finito l'anno scolastico, passavo le mattine a girare in bici in cortile con una mountain bike Gaiardoni. Salivo per mangiare e guardare il Giro d'Italia alla tivù, poi scendevo e ricominciavo a girare, più determinato di prima. Un giorno, di quelli vicino a Natale, papà mi chiede di andare fuori sul balcone per prendere una cosa, neanche ricordo cosa. Esco, e appoggiata alla ringhiera mi aspettava una bicicletta: da corsa, gialla e verde, Pep Magni, bellissima».
La bici c'è, adesso bisogna trovare le gare.«Leggo su Topolino che si sta organizzando il Primo Trofeo di ciclismo Topolino. E' aperto a tutti e quella è stata la frase magica. Batterie di 200 metri, tanti bambini per tante batterie. Comincio e vinco, continuo e vinco. Finisce che ho vinto io. Porto a casa il Topolino gigante, un pupazzo che è il primo premio, e la possibilità di partecipare ai Giochi della Gioventù». È il settembre 1993.
Poi la Bareggese, nobile società ciclistica a ovest di Milano, per le categorie giovanili, e la Viris Vigevano subito dopo, come una storia che si intuisce come andrà a finire. «Ero un buon passista e mantenevo un buon passo anche sui percorsi ondulati. Non sono mai stato un vincente, ma ero sempre presente, questo sì: nelle fughe, nei tentativi, nelle varie fasi che animano una corsa . Quattro corse vinte in tre anni».
Che potevano essere anche di più, perché c'è qualcosina che non funziona come dovrebbe. Massimo soffre la competizione, di sicuro ne soffre in corsa. Colite psicosomatica la chiamano quelli che sanno dare il nome alle cose: «Durante gli allenamenti stavo bene, potevo mangiare di tutto – ci spiega oggi -, ma in corsa soffrivo: dolori allo stomaco da stare male, da dovermi fermare. Da quando la corsa si faceva seria e io dovevo essere pronto, da quando la fuga partiva e io ero dentro». E ancora: «Ho provato a mangiare solo riso in bianco la sera prima, a bere solo camomilla durante la gara: niente. Stavo male e dovevo mollare». Un malessere che è un segno, una spia rossa che si accende dentro.
Nel 2004 Massimo diventa comunque professionista. «Alla LPR di Omar Piscina, che nasceva proprio quell'anno; direttore sportivo Orlando Maini. Passare dalla Viris alla LPR è stato come passare dalle elementari all'università. Alla Viris eravamo un bel gruppo che andava alle corse come in gita. Da professionista, invece, non funzionavo: non mi sentivo al mio posto. Era come essere costretto a girare in giacca e cravatta e non veder l'ora di spogliarsi per infilare una tuta».
Il professionismo è il suo sogno ma non il suo mondo. E la spia rossa che si riaccende: «Ero a disagio». Essere a disagio è un modo leggero di spiegare una questione profonda come il mare. Il disagio è un vento contro mentale che non ha nulla di razionale. E' inutile spingere, va accettato. E per accettarlo bisogna essere forti. «Quindi decido di mollare. Deluso io, deluso mio padre. Ma la mia testa funzionava così».
Massimo chiude col professionismo dopo un anno. «Vado alla Divani&Divani a fare il magazziniere. Intorno a me ridono tutti ma quello che ride più di tutti sono proprio io: volto pagina. Discorso chiuso. Finalmente mi trovo ad avere una vita normale, con orari normali. Ero ancora tarato coi tempi impossibili del ciclismo e vivere così mi sembrava giù un sogno. La bicicletta non mi manca».
Dopo un paio di mesi però, riprende quota, all'altezza giusta. «Torno a lavorare in negozio dal papà. Bici da corsa, da strada, mountain bike. Faccio ruote, scelgo i materiali, calibro, misuro e valuto. Parlo di carbonio piuttosto che di allumino, di carri 46 che poi si sono ridotti e adesso si sono ancora allungati». Ma anche di amatori che vanno «consigliati, guidati, perché vedono l'amico, leggono su internet e credono di saperne e invece non sanno». Insomma lavora, parla e mastica di ciclismo da giovane esperto, da professionista di razza, anche senza pedalare.
Poi succede che nel suo negozio entra il Principe Azzurro. Si chiama Marco Musazzi e lavora per la De Agostini. Ha bisogno di informazioni sulle biciclette, sul ciclismo, su un po' di cose. Massimo che è lì a fare la Cenerentola lo riceve, lo ascolta e gli risponde. «Abbiamo cominciato a chiacchierare e abbiamo finito per fare 50 dvd sulle salite più importanti del ciclismo in Italia e all'estero, pedalando di fianco a Davide Cassani».
Nei video Boglia e Cassani spiegano come si pedala in bicicletta in salita; come sarebbe più facile piuttosto che meno difficile. «Ogni volta ci accompagna un professionista diverso: Ivan Basso per lo Zoncolan, Miguel Indurain per il Tourmalet, per esempio. E' nato tutto così, da quella chiacchierata. Era il 2006 e siamo andati avanti due anni».
Poi ancora video con Bike Channel, per cui ha fatto The coach: «si può definire un reality sul ciclismo. Con Paolo Savoldelli abbiamo selezionato due cicloamatori, partendo da mille aspiranti, per portarli a competere in una gran fondo di prestigio». The Coach è andato bene, lui si è divertito, i ragazzi anche. Ora gli appassionati lo lo riconoscono e gli chiedono l'autografo.
E ancora: la passione per la chitarra, per la quale ha approcciato Gigi Cifarelli, talentuoso ciclista e chitarrista: «Ho cominciato da solo, poi ho conosciuto il Cifa ad una gara amatoriale; mi sono avvicinato come un fan e mi ha risposto come un fratello maggiore, da subito». Ma anche per le storie da leggere e da vedere, comunque da conoscere. «Sto leggendo Il racconto del Vajont di Marco Paolini. Il film di Renzo Martinelli sullo stesso argomento no, non l'ho visto ma ne ho visti tanti altri, sono pieno di dvd». Poi, anzi soprattutto, il matrimonio con Francesca, vicino al primo anniversario: «per lei niente bici, nuota e corre. Lei sì che lavora…», dice.
Massimo adesso se la passa bene: ha interessi e passioni; cose da fare e da sbrigare. E poi va e viene dal negozio: «Sempre per Bike Channel all'inizio di giugno siamo stati sulle salite tra veneto e trentino per testare bici e materiali; invece in questi giorni siamo al Sestriere: mi piace, funziona. Poi torno e rimango un po' in negozio e quando mi chiamano riparto».
Difficile pensare che gli amatori che vanno in negozio, le riprese per Bike Channel o una vita da coppia siano meno stressanti che correre in bici. Ma ognuno di noi sente il suo vento in modo diverso e si mette al riparo come può.
di Alessandro Avalli