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CAPITANI CORAGGIOSI. MARCO GENTILI, IL NUOVO CEO DI BIANCHI: «VOGLIAMO ESSERE UN PUNTO DI RIFERIMENTO MONDIALE» GALLERY
di Pier Augusto Stagi | 01/03/2024 | 08:15

Da fuori sembra un’immensa astronave adagiata nella pianura di una campagna asciutta e gelida a due pas­si da Bergamo e a uno da Treviglio, sotto un cielo color dell’orzata. È imponente questa struttura che si distende e si estende in orizzontale senza innalzarsi: è in pianura anche questa eccellenza dell’industria italiana di color del cielo, un cielo che però ha mille tonalità d’azzurro, mentre questo colore tutti hanno imparato a conoscerlo e a riconoscerlo in mez­zo a mille, perché è il celeste Bian­chi.

È unico, altro che blu Estoril. Altro che celeste Tiffany. Tutt’al più si somigliano. Entrambi sono i colori dell’eccellenza: uno per le orecchie, le dita e il collo; l’altro per le gambe: entrambi per gli occhi e il cuore.

Il celeste Bianchi abbiamo imparato a conoscerlo in quasi 140 anni di storia, visto che la Fabbrica Italiana Veloci­pedi Edoardo Bianchi, meglio conosciuta come Bianchi, affonda le radici inizialmente a Milano, dando inizio alla propria attività e storia nel lontano 1885, anno di nascita di questo brand iconico dal colore più riconoscibile di tut­ti, il più desiderato al mondo. Qualcuno ha provato anche ad imitarlo, ma con misura e moderazione, cautela e rispetto, perché lo sanno anche loro, i concorrenti: se colori una bicicletta in quel modo, involontariamente stai parlando di lei, della Bianchi.  

Sono qui, al quartier generale di via delle Battaglie a Treviglio per intervistare il nuovo amministratore delegato dell’azienda. Lui è un italiano nato a Roma ma cresciuto per amore e per ambizione in Svezia, dove pulsa ben più di un cuore Bianchi, visto che lì vive il gran patron Salvatore Grimaldi, classe ’45, pugliese di Taranto emigrato in Svezia in cerca di fortuna e che la fortuna non solo l’ha trovata, ma l’ha creata. Fra il 1995 ed il 1999 il “Grup­po Grimaldi Industri AB” acquisisce una serie di marchi ed aziende di biciclette, fra le quali la Bianchi, vecchio sogno di patron Grimaldi.
Era il 1952 quando il papà di Salvatore, ufficiale di Marina a Taranto, decise di emigrare in Svezia. La mamma aveva da tempo dei fratelli a Västeras e le as­si­curavano che si stava bene. Comin­ciò a lavorare alla Volvo di Köping co­me saldatore, ma pare che si annoiasse. Co­sì, si fece prestare un milione e mez­zo di lire da suo padre e acquistò una apparecchiatura per le rettifiche dei pistoni di motori, visto che più di una fabbrica di macchine aveva bisogno di qualche “correzione”, di qualche rettifica. In pratica dà vita a quello che oggi chiameremmo outsourcing.

È il 1970 quando aziende del calibro di Saab e Scania gli passano tanto lavoro qualificato. Pedalando e rettificando, Salvatore Grimaldi riesce a costruire una realtà che diventa ben presto un gruppo e poi un grande gruppo della mobilità sostenibile. Con la conglomerata Cycleurope costruisce un impero in grado di sfidare i concorrenti asiatici, americani ed europei, che da anni puntano su processi di acquisizioni, diversificazioni di prodotto ed economie di scala. Grimaldi ha via via inglobato marchi prestigiosi come Peugeot, Gitane, Crescent, Monark, Puch, Kildemoens e DBS. Un assortimento in cui è entrato, dalla fine degli Anni Novanta, anche Bianchi, il marchio di bicicletta che aiutò a vincere e a creare la leggenda sportiva di campioni come Fausto Coppi, Felice Gimondi e Marco Pantani.

Oggi siamo qui, a co­noscere il nuovo numero uno di questa eccellenza italiana nel mondo. Per arrivare all’ufficio di Marco Gentili, dal 20 dicembre scorso nuovo Ceo di Bianchi, dobbiamo percorrere i corridoi della nuova palazzina che custodisce anche un bellissimo ed elegante spazio espositivo, uno showroom che è una sorta di museo del nuo­vo, mentre quello storico è itinerante, qua e là sparso tra quadri, poltrone e divanetti.

Al pian terreno ci accoglie una perfetta replica di una Alfa 1750, la vecchia ammiraglia Bianchi fine Anni Settanta del “reparto corse” ai tempi di Felice Gimondi. E poi le biciclette del pioniere e iniziatore di tutto Giovanni Toma­selli, fino a quelle di Jan Ullrich, Johan Museeuw e Marco Pantani. Ma prima di entrare nell’ufficio di Marco Gentili, proprio appena fuori, c’è la specialissima del Campionissimo. Se non fosse che non sono in chiesa e quindi evito di inginocchiarmi, ringrazio il Dio della bicicletta e il Campionissimo per quello che ci hanno donato. Poi eccomi al cospetto di Marco Gentili che, in perfetta sintonia con il suo cognome, mi accoglie con un sorriso che vale un ab­braccio.

“Primus inter pares”, si siede accanto a me. La famigerata poltrona del capo di Fantozzi resta vuota, non so se è in pelle umana, ma Gentili oltre che essere molto umano e anche fin troppo mo­desto per la storia che lo accompagna e che in queste pagine vi racconterò. Gentile proprio come il suo co­gnome, mentre il suo nome Marco, mi riempie il cuore di struggenti emozioni che in un amen si fanno ricordi: sono Felice. Anche in questo caso rigorosamente maiuscolo.  

Come ci si sente a capo di un marchio come questo?
«Bene, molto bene e non potrebbe es­sere altrimenti».

Qui non c’è bisogno di ricorrere all’armocromista: il celeste Bianchi va su tutto.
«Spero che vada sempre di più».

Mi dicono che lei ama anche il giallorosso.
«Nasco a Roma il 3 luglio del 1963 e sono di conseguenza anche un timido tifoso giallorosso. Seguo, m’interesso, ma con grande moderazione e misura: non posso chiaramente definirmi lu­pac­chiotto convinto. In vita mia sono stato solo due volte allo stadio».

Quindi tra Coppi e Totti?
«Coppi, ma anche Gimondi e Pantani, chiaramente».

E Totti?
«Poco, molto meno. Le ho detto che per il calcio ho solo una timidissima passione. Sono un italiano atipico».

Difatti vive da una vita in Svezia.
«Esatto. Diciamo che mi sento italianissimo, anche se però sono cittadino del mondo».

Un po’ come le Bianchi.
«Abbiamo sedi in tutti i cinque Con­tinenti e vendiamo i nostri prodotti in oltre 90 Paesi: sì, siamo uno dei tanti marchi globali della bicicletta».

Viene da una famiglia tradizionale?
«Tradizionalissima, anche se mamma Ornella lavorava: non era già più la classica mamma tutta casa e famiglia. Due figli, mia sorella di tre anni più grande e il sottoscritto. Mamma lavorava presso un ente parastatale che una volta dava i rimborsi a chi utilizzava la carta: era l’Ente nazionale per la cellulosa e la carta. Papà Alvaro aveva un ingrosso di foderami per il centro sud. Vendeva l’interno delle giacche, sia per uomo che per donna. Sia io che mia so­rella, poi, abbiamo scelto di partire mol­to presto per l’estero: oggi lei è una psichiatra infantile e dal ’92 vive a Lon­dra, io dall’88 sono di stanza in Svezia: avevo 25 anni quando sono partito. In verità lascio per la prima volta Roma nell’87, quando rispondo al servizio di leva: destinazione Chieti, fanteria. Poi una vacanza in Grecia sull’isola di Ios nei pressi di Santorini, fu galeotta: co­nosco Christina, una ragazza svedese e la mia vita cambia, per sempre».

Non sarà per sempre il vostro amore…
«Come spesso succede, in particolare a quell’età, ma è stata una storia importante e di formazione. Siamo cresciuti per un certo periodo assieme. Io sono stato da lei, poi lei è venuta come ra­gazza alla pari a Roma, poi dopo aver assolto il militare e essermi laureato in Economia e Commercio alla Sapienza, sono tornato in Svezia, a Gislaved, do­ve Christina viveva. Per mantenermi ho fatto l’operaio in un’azienda che si chiamava Gislaved Däck, produceva gomme chiodate. Lì ci sono restato per sei mesi, ma nel frattempo ho anche approfittato di una legge svedese che ti permette di studiare la lingua e ricevere un compenso pari a quello che avevi quando lavoravi da dipendente».

Un bel modo di integrare.
«Sono sempre stati avanti… Dopo di che sono stato assunto alla Sedaplast, azienda che produceva delle palle di plastica dentro le quali veniva inserito del cloruro di calcio, che serve ad as­sorbire l’umidità ambientale: sono quelle vaschette che si utilizzano per togliere l’umidità in cantina o in am­bienti dove si crea condensa. Io ero al re­parto che produceva i ricambi. Dopo sei mesi, però, Christina ed io de­cidiamo di lasciare lavoro e la Svezia per concederci una sorta di “anno sabbatico” di sei/sette mesi, il tempo ne­cessario e minimo per farci un giro del mon­do e di conoscenza. Per la precisione arriviamo fino in Indonesia».

Basta Italia, quindi.
«Mica vero. Nel settembre dell’89 sono tornato in Italia per provare a lavorare con mio papà nella sua azienda tessile, ma mi sono accorto immediatamente che non era possibile: io e lui siamo troppo diversi. Così non ci penso né una né due e torno in Svezia. Nel frattempo Christina si era iscritta a Scienze e Politiche e io mi metto in moto per far riconoscere anche in Svezia la mia laurea in economia: fu una bella trafila di nove mesi. In quel lasso di tempo per il riconoscimento della laurea, feci domanda e vinsi una borsa di studio per Pechino e andai per un anno a studiare cinese. Nel frattempo arrivò la ri­sposta per la mia laurea, mi tennero buoni alcuni esami e altri ne dovetti ridare: in due anni - dal ’93 al ’95 - mi sono laureato in Economia. Ho la laurea, ma la mia storia con Christina nel frattempo, come le dicevo, si era conclusa».

Ma se nel ’93 perde Christina, l’anno do­po incontra sulla propria strada Martina.  
«Esattamente. E diventerà mia moglie. Martina è di Vasteras, anche se oggi vi­viamo nel cuore di Stoccolma, in pieno centro. Abbiamo tre magnifici ragazzi: Axel, Didrik e Teodor. Hanno preso il mio cognome italiano, ma i nomi sono di conseguenza e rigorosamente svedesi. Tutti e tre hanno il doppio passaporto».

Nonostante la famiglia, lei però continua a fare il Marco Polo.
«Difatti torno in Cina, non solo per perfezionare la lingua, ma per lavorare e mettere a frutto quello che non è una cosa né scontata né tantomeno convenzionale: l’essere un economista che par­­la il cinese. Il primo impiego è in una shipping company, una compagnia di spedizione. Nel contempo faccio an­che richiesta alla SOAS per un master di economia di sviluppo con ri­fe­rimento all’area dell’Asia del Paci­fico, a Londra. Storicamente in SOAS formavano i governatori della Regina per essere poi reinseriti nei territori del Commonwealth. Finito il master mi offrono il dottorato, ma siamo nel ’96-97, quindi in pieno sviluppo della fi­nanza globale, non è facile. Decido al­lora di tornare per un breve periodo in Italia e vado alla Bocconi a parlare con il professor Filippini dell’Ismeo: mi propongo per le competenze e le lingue e lui molto gentilmente mi dice che gli sarebbe piaciuto molto potermi avere nel suo staff, ma in quel momento non c’erano le condizioni. In ogni ca­so pre­se a cuore la mia causa e man­dò il mio curriculum ad un’azienda di Modena che produceva impianti di macchine da processo, la WAM, e da quel momento inizia ufficialmente la mia avventura nel settore metalmeccanico. Dopo sei-sette mesi di formazione anche in fabbrica, mi trovo a lavorare a stretto contatto con Giorgio Ga­violi che, dal 1998, era responsabile anche della OLI. Ed è in quel periodo che lavoro a stretto contatto con lui per chiudere un’importante intesa di joint-venture tra la OLI e la Wolong per la produzione dei vibratori in Cina. Nel 1999 di­vento AD della WAM Shanghai e sie­do anche nel Cda della JV OLI-Wo­long. Alla Wam ci resto fino al 2005, quando decido di passare alla Köeber Schlei­fring».

Altro che cittadino del mondo: lei è un mo­­­toperpetuo.
«Anche se ad un certo punto, è il 2008, sento l’esigenza di tornare in Italia. Ho il desiderio che i ragazzi possano vedere e crescere anche nel nostro Paese. Martina ed io ci diamo un tempo: al­me­no un anno scolastico a Roma. La prima elementare la deve frequentare il nostro secondogenito; all’asilo ci deve andare il terzo; in terza elementare ci va il più grande. Il punto è che non ce l’abbiamo fatta: siamo scappati».

In che senso?
«L’Italia è bellissima, gli italiani adorabili, ma il Paese è troppo complesso, difficile e molto rallentato dalla burocrazia: siamo tornati in Svezia. Io in quel periodo romano stavo lavorando per un fondo cinese, ma ho dovuto la­sciare lì tutto».

Quindi?
«Punto e a capo. Si ricomincia. E io ho ricominciato in Svezia dalla Wam, dove ero già stato benissimo e mi riaccolgono a braccia aperte. Lì ho lavorato per due anni prima di essere spostato sempre dalla Wam ad Atlanta, in Georgia: ci restiamo cinque anni, ma nel 2015 Martina, mia moglie, dice basta. Non c’è più viaggio. Noi stiamo a casa e la nostra casa è in Svezia!».

Famiglia a casa, ma lei continua a circumnavigare il mondo.
«Piccolo passo indietro. Siamo nel 2003, sono a Shangai e l’allora proprietario dell’azienda per cui lavoravo mi dice: ti pago un MBA (Master in Bu­siness Administration, ndr) se mantieni i risultati che stai facendo. Io scelsi di fare un INSEAD. Avevo due figli piccoli, e oltre a lavorare, una settimana ogni cinque la trascorrevo a Sin­ga­pore e poi sei volte durante quei 14 me­si ho trascorso due settimane a Fon­taine­bleau, sede della INSEAD (L’In­sti­tut européen d’administration des affaires, ndr). Tutto questo grazie a mia moglie, che in quel periodo fu davvero una co­lonna. Quindi, ci stava che ad un certo punto lei e i nostri ragazzi mi chiedessero un po’ di pace. Non potevo forzare di più, era nelle cose».

Lei a questo punto però, ne approfitta per cambiare stile di vita.
«Ci provo, tanto è vero che nel 2016 decido di fondare una società di consulenza, la “Deucalion Management Con­sulting”. Una realtà nata per sostenere le piccole e medie imprese nella generazione di valore aggiunto. Abituata anche a lavorare con i dirigenti indirizzandoli a prendere decisioni migliori, convertendo le decisioni in azioni e generando i desiderati risultati sostenibili».

Sì, tutto chiaro, ma come conosce Salva­to­re Grimaldi?
«Se io nel 2016 fondo la mia società di consulenza, Martina diventa assistente personale di Salvatore Grimaldi, il qua­le dopo poco tempo mi affida qualche consulenza. Insomma, incomincio a girare per lui e a verificare il buon an­damento delle aziende che gravitano nella Holding GIAB (Grimaldi In­dustri AB)».

E alla Bianchi come ci arriva?
«Sono state fatte dalla proprietà una serie di valutazioni che hanno portato Salvatore Grimaldi ad operare un cambiamento. Così mi sono trovato qui. L’obiettivo, come detto, è il solito: rendere la Bianchi un’azienda leader, pronta a fare un salto in avanti. Non solo perché c’è la tradizione e il muscolare, ma dobbiamo anche definire cosa fare della parte elettrica. Avremo da fa­re molto, ma c’è storia, squadra e tecnologia per poterlo fare. La Bianchi è di Coppi, Gimondi e Pantani, ma non solo… Bianchi deve essere azienda ca­pace di appagare esigenze, con la qualità e l’assistenza. Uno degli interrogativi è l’elettrico: cosa fare, come farlo? Ci stiamo preparando ad una grande sfida che è fissata per il 2025».

Sogno?
«Vendere sempre più biciclette, belle biciclette, sia muscolari che elettriche. Aprire la Bianchi al pubblico, far vedere non solo un museo di biciclette che hanno fatto la storia del ciclismo, ma anche un’azienda modello che è una eccellenza. Ed è qui da vedere».

È stata definita la fabbrica 5.0.
«Abbiamo ricevuto anche delle sovvenzioni statali dal Pnrr per il nostro mo­dello. Nella nostra fabbrica, che è un’eccellenza di tecnologia sostenibile e digitale, abbiamo 90 persone impiegate, ma vorremmo accrescere il numero di donne (oggi in rapporto è 70-30 e vorremmo portarlo a 50-50), anche per­ché la linea è sospesa, tutto scorre da­vanti a te, così anche i cestelli nei quali sono contenuti i componenti. È una catena di montaggio leggera ed ergonomica pensata per fare in modo che gli operatori non si affatichino, non subiscano stress».

Di cosa è orgoglioso?
«Di avere tanti ragazzi, alla faccia di chi dice che non hanno voglia di lavorare. L’ambiente è bello, tutto digitale, tutto sospeso, con un lavoro manuale ma da laboratorio, dove le mani si sporcano relativamente. I ragazzi si di­vertono, si sentono qualificati e appagati, soprattutto formati. Non c’è l’idea di essere semplicemente dei numeri, ma delle persone, con delle competenze importanti e appaganti».

Siete un’azienda celeste Bianchi ma anche green.
«Produciamo energia grazie ad un si­stema di pannelli solari di ultima generazione. L’acqua calda e il gas, tutto è frutto del geotermico. Il riscaldamento è a pavimento, con oltre 80 km di tubi. Siamo a tutti gli effetti energeticamente indipendenti».

Oltre alle biciclette c’è di più?
«Vero, oggi Bianchi vuol dire anche ruote, selle e manubri. La nostra “mission” è diversificare, ma anche mettere ordine, razionalizzare».

Cosa vuol portare lei rispetto al passato?
«Come le ho detto vogliamo essere azienda modello e soprattutto azienda aperta, in grado di tornare ad avere un rapporto sempre più profondo con la cittadinanza che ci circonda. Siamo un’azienda da 123 milioni di euro di fatturato, conosciuta nel mondo, ma non per questo non dobbiamo pensare anche a chi ci accoglie. Tra le cose che faremo ci sarà l’allineare le nostre real­tà straniere con noi, in nome di un coordinamento e di un’interazione ne­cessaria che devono essere condivisi. Tre­viglio si interfaccerà con i cinque continenti. Sarà Treviglio a dettare i tempi, a creare un format anche di mar­keting e comunicazione. Chiaro che ogni continente ha e avrà un proprio imprinting, ma questo dovrà essere discusso: come le ho detto, condiviso».

Obiettivi?
«Certificarci. Bianchi al momento non è ISO certificata per la sicurezza, non ha la 14001 per l’ambiente, ma siamo pronti per farlo, abbiamo tutto per es­sere certificati e lo faremo, perché Sal­vatore Grimaldi è stato lungimirante e ha creato tutte le condizioni per arrivare a questo. Teoricamente potremmo an­che certificarci per la sostenibilità aziendale, ma questo verrà più tardi».

Come sarà la sua Bianchi?
«Una struttura piatta, non verticistica, con un cuore italiano e un sistema svedese. Io sono “primus inter pares”. Tut­ti sulla stessa bicicletta, tutti a pe­dalare assieme. Da soli non si va da nessuna parte. Come dice un antico detto africano: se vuoi arrivare primo corri da solo, se vuoi arrivare lontano, cammina insieme».

Lei è l’uomo delle emergenze, un risolutore di situazioni complesse: alla sera riesce a dormire?
«Ormai ci sono abituato e in ogni caso faccio un lavoro che sotto l’aspetto etico è molto importante e questo mi fa dormire sonni tranquilli».

Ma oggi è qui come responsabile della sua società di consulenza o come uomo Bianchi a tutti gli effetti?
«Amministratore delegato, uomo Bian­chi a tutti gli effetti».

E la famiglia?
«Al venerdì torno a Stoccolma, due ore e mezzo e sono a casa».

Ma lei una Bianchi ce l’ha mai avuta?
«A 14 anni andavo in bicicletta prima con la Lazzaretti e poi la Bianchi. A Stoc­colma pedalo su una celeste Bianchi».

Seguiva il ciclismo?
«Sì. Mi è sempre piaciuto».

Pratica altri sport?
«Nuoto di lunga distanza, 3/5 chilometri».

Ama leggere?
«Tantissimo e di tutto. Oltre a libri di economia e managment, amo leggere libri di storia e politica sociologica».

Uno scrittore o scrittrice di riferimento?
«Se mi voglio rilassare, amo i gialli, au­tore preferito Lee Child».

L’Italia non le manca?
«L’Italia è nel nostro cuore. Abbiamo da anni un casale in Umbria, a Mon­te­leone di Spoleto. Abbiamo anche investito in una piccola cantina».

Ama più il cibo italiano o quello svedese?
«Tutti adoriamo il cibo italiano. Non c’è confronto. Ogni volta che torniamo in Italia faccio un “pallets” di vettovaglie di casa nostra, sul quale metto di tutto: dalla pasta, all’olio, dal vino ai formaggi, chiaramente anche il caffè, insomma, tutto».

Sa cucinare?
«Sì, quando ho tempo faccio anche la pasta in casa. La mia passione? La piz­za».

Chi cucina in famiglia?
«Chi torna a casa prima».

Il cinema le piace?
«I film commerciali non li amo tantissimo, mi piacciono di più le pellicole d’essay».

Film preferito?
«“A Beautiful Mind”, diretto da Ron Ho­ward con Russell Crowe, che interpreta magistralmente il premio Nobel John Nash».

Ha un colore preferito?
«Il celeste».

Sa che me lo immaginavo…
Risata.

Un fiore?
«L’orchidea».

Ha un luogo del cuore?
«Penso di sì, perché a mia moglie e ai miei figli ho detto che prima che io muoia vorrei portarceli. È in India, a Varanasi. Era l’89 quando per caso mi trovai lì nel momento in cui stavano celebrando un funerale e fu un’esperienza incredibile, di una potenza evocativa straordinaria. È chiaro che se ritorni non vivi più una cosa simile, ma quello è per me chiaramente il luogo del cuore. Mi è restato dentro».

Ha rimpianti?
«Francamente no».

Un campione del ciclismo che ha amato?
«Due: Gimondi e Merckx. Adesso, an­che se non è un uomo Bianchi, dico Fi­lippo Ganna. Però a ben pensarci, un rimpianto ce l’ho».

Quale?
«Non aver conosciuto Felice Gimondi, mi sarebbe piaciuto».

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