In questa puntata Giancarlo Gentina e Italo Zilioli. Due piemontesi. Gentina, gregario, e Zilioli, battitore libero. Gentina lo incontrai al Ghisallo, con un altro campione fra i portatori d’acqua, Germano Barale. Con Zilioli è stata una frequentazione più assidua, tra Giro d’Italia e Maratona dles Dolomites, tra Master di giornalismo Giorgio Bocca a Torino e la trattoria travestita da elettrauto di Gabriele Cabrio a Milano, tra telefonate e lettere. Ecco che cosa mi era rimasto, di inedito e dimenticato, nei miei appunti.
“Mai ricevuto una borraccia, ma date a migliaia. Era il mio ruolo di gregario” (Giancarlo Gentina).
“Giro d’Italia, tappa al sud, un caldo esagerato, si moriva di sete. Entrai in un bar, sul banco non c’era nulla, mi calai in una botola, all’improvviso fu buio. Il padrone aveva chiuso la botola. E intanto la corsa andava. Dopo 10 minuti passati a bussare, imprecare e implorare, finalmente mi fece uscire. Sulla strada non c’era più nessuno. Però un poliziotto mi aveva visto e aspettato, mi attaccai a lui e lui mi riportò in gruppo” (Giancarlo Gentina).
“Il mio record al Giro d’Italia 1963, la tappa da Pescara a Viterbo, 263 chilometri, tutti su e giù: mi fermai cinque volte per riempire le borracce e arrivai settimo” (Giancarlo Gentina).
“Papà calzolaio, zio carpentiere, la prima bici me la comprai con i risparmi della mancia estiva. Era una Frejus. Avevo voglia di evadere da casa, abitavo in una borgata di periferia. Per me era come conquistare il mondo. La prima gita lunga a Pianfei, con due amici e due tornanti che ci sembravano lo Stelvio” (Italo Zilioli).
“Un giorno, in uno dei miei giri, mi trovai con un altro ragazzo. Ci tirammo un po’ il collo. Alla fine mi chiese se non volessi provare a correre. E come si fa?, gli domandai. Si prende il tesserino, mi svelò. Mi recai al Velo Club Gios, e di Gios c’era anche il negozio di bici. M’iscrissi, ma il tesserino non arrivava mai. Tant’è che per la prima e unica volta in vita mia andai in ferie con un compagno prima di scuola e già di lavoro, e con i suoi genitori, nella loro casa di Loano. Ero così preso dal ciclismo che, un giorno, a piedi andai da Loano fin sul Berta per vedere dove passava la Milano-Sanremo, e siccome non avevo la bici, per allenarmi, andavo in mare sui pedalò” (Italo Zilioli).
“Finalmente verso settembre arrivò il tesserino. La prima corsa fu a Torino, due giri a Lanzo passando per La Mandria. Avevo la Frejus, che dimostrava i suoi cinque anni di vecchiaia rispetto a tutte le altre bici. Ma l’avevo aggiustata per le mie misure, tirando il canotto e il reggisella. Di ciclismo continuavo a non sapere nulla: né il mangiare né il bere, soprattutto il correre. In programma due giri: il primo feci fatica a tenere le ruote di quelli davanti, il secondo cominciai a capire qualcosa, a sentirmi meglio, ad alzare la testa, finché su uno strappettino di 600 metri scattai. Venne a prendermi un compagno: ma sei matto?, mi disse, davanti c’è Faggino in fuga con altri nove. Io non sapevo né che ci fosse la fuga né che ci fossero nove corridori più Faggino, non sapevo neppure che Faggino fosse un mio compagno. E così me ne stetti tranquillo in gruppo. Ma a un chilometro e mezzo dall’arrivo, presi una curva alla mia maniera, mi ritrovai con 100 metri di vantaggio e arrivai al traguardo, undicesimo. Tolmino Gios, che era al traguardo, si stupì: ma non è quello nuovo?, ma non è quel brocco? Intanto, per la stanchezza, mi ero buttato a terra” (Italo Zilioli).
“La seconda corsa caddi e ruppi il telaio della Frejus. All’arrivo Gios ebbe pietà di me. Vieni da me, mi disse, ti prendo le misure e te ne faccio una nuova” (Italo Zilioli).
“Circuito in Belgio dopo il Tour de France. Un paio di chilometri intorno alla cattedrale. Di sera. Dopo il primo giro sentii molti spettatori italiani che mi incitavano. ‘Dai, Italo’, ‘Alé, Italo’, ‘Forza, Italo’. Questo tifo mi dette la carica. A una curva Eddy Merckx andò via. Noi, dietro, tutti in fila indiana. Anch’io, a tutta, perché davanti a quegli italiani mi sarebbe piaciuto vincere, o almeno fare una bella figura. Ma forse non era la serata giusta. E anche se andavamo a tutta, limando, Eddy ci doppiò” (Italo Zilioli).
“Non sapevo fare il gregario. Ero istintivo, inventavo, cercavo il modo più difficile per staccare tutti. Ma non sapevo fare neanche il capitano. Non avevo le qualità per essere un direttore d’orchestra. Non sapevo chiedere e infatti non ho mai chiesto niente a nessuno” (Italo Zilioli).
“Ero un sognatore, capace di immaginare e incapace di programmare. Pensavo che la corsa successiva sarebbe stata quella giusta” (Italo Zilioli).