Gatti & Misfatti
La patacca

di Cristiano Gatti

Hanno i loro tempi, ma alla fine ci arrivano. Diamo il cordiale benvenuto. Parlo di tanti strateghi del ciclismo moderno. Per comodità di ragionamento, mi accanisco contro uno dei più lucidi e dei più autorevoli, quel Beppe Saronni che stimo molto e che sicuramente sa come difendersi (mi piace perché non è uno che piagnucola e che mormora alle spalle: se ha qualcosa da ridire, te le spara sul muso).

Allora, diamo il benvenuto al valoroso Beppe, che soltanto poche settimane fa, in un’intervista alla Gazzetta, candidamente poneva questa questione: mentre un team Professional di primo livello costa sui 3 milioni l’anno, una buona squadra Pro Tour ne costa almeno 8: in cambio di che cosa? Ovviamente la domanda è retorica e amara, perchè lo stesso Beppe si dà la risposta. Hanno i loro tempi, ma alla fine ci arrivano. Le squadre Pro Tour, com’è evidente da tempo, in cambio di 8 milioni ricevono una stupenda patacca. Esattamente. Come quelle che vengono rifilate ai turisti gonzi, ma anche a quelli scafati, tra le bancarelle di Forcella. Il procedimento è noto: il turista sceglie l’orologio o l’impianto hi-fi, sì, proprio quello, me lo incarti, rapido gioco di prestigio e puntualmente, scartando a casa il pacchetto, ci trova dentro un sasso.
Le squadre Pro Tour sono come il turista gonzo. Hanno pagato profumatamente quella che lo stesso Saronni definisce “una scatola vuota”. Cifre iperboliche, organici monstre, per partecipare a un sontuoso circuito di gare che nessuno conosce. Gonzi loro, ma geniale anche il venditore. Il risultato è quello che si prepara per la prossima stagione: i team aristocratici, che se la tirano tanto, pagano cifre ingenti per andare a correre in periferia, mentre le squadrette più piccole partecipano ai grandi Giri e alle classiche monumento. Certo, anche le Pro Tour possono sperare di correre Giro e Tour, ma non è poi così facile: se difatti possono legittimamente sperare di avere l’invito degli organizzatori, che da parte loro hanno mani libere nella scelta degli iscritti, ugualmente è possibile che sia la stessa Uci a negare il permesso di andarci, per rappresaglia nei confronti degli stessi organizzatori e per obbligare le proprie squadre a correre soltanto il circuito Pro Tour.

Così siamo messi. Tutto questo in nome di un’esigenza superiore che l’Uci chiama mondializzazione. La motivazione, se non nascondesse evidenti appetiti economici, sarebbe di per sé anche nobile: si vuole allargare la cerchia dei Paesi ciclistici, affrancandosi un poco dall’Europa per invadere i nuovi mercati, tanto per non fare nomi le solite India e Cina, o Africa e Australia. Nessuno può negare che togliere al ciclismo la sua patente di sport europeo sia obiettivo rispettabile. Però c’è modo e modo. Altri sport - mi vengono in mente sci e Formula uno - hanno impiegato decenni ad allargare i confini. Quarant’anni fa, gli slalom di Coppa erano tutti tra St.Moritz e Cortina, poi una tappa per volta si sono aggiunte Sapporo o Salt Lake City, Giappone e Stati Uniti, piuttosto che Canada e Slovenia. Così le auto: da Imola e Montecarlo, lentamente ci siamo ritrovati a Dubai e a Pechino, però senza traumi e senza scissioni, senza forzature e senza guerre mondiali.

Il ciclismo no. Come sempre. Il ciclismo è particolare. Uno si alza la mattina dicendo che la Sanremo e la Roubaix hanno rotto: bisogna andare in Polonia e in Malesia. Subito, tutto assieme. Vogliono persino convincerti che la Malesia, se la guardi bene, è prestigiosa almeno quanto la Liegi-Bastogne-Liegi. E le grandi squadre, con tutti i loro cervelloni a libro paga, se la bevono tranquillamente. Comprano il sogno dal bravo imbonitore. Poi, nella tranquillità della propria casa, aprono il pacco e scoprono di aver pagato a peso d’oro “una scatola vuota”. Ma che bravi. L’avessero chiesto a me, che sono un pistola, avrei previsto gratuitamente come sarebbe andata a finire (perché non sembri una sparata da bullo, eventualmente consultare questa stessa rubrica di un anno o due anni fa).

Nel dare il benevenuto a tutti i Beppe Saronni dei grandi team, che con i loro tempi alla fine ci sono arrivati, ora godiamoci lo spettacolo. Per il 2008, è aperta la corsa parossistica a NON ottenere una licenza Pro Tour. Io sarei disposto a versare qualunque cifra, pur di evitarla. Anche 8 milioni di euro. A loro, che invece se la sono già comprata e devono tenersela, resta invece la speranza espressa sempre da Saronni nell’intervista: «Confidando nella logica di chi ci governa, continuo a sperare che gli enormi problemi esistenti vengano risolti». Auguri.
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