Grandi Giri, giri grandi
di Cristiano Gatti
Ma dove sono quelli che “la corsa a tappe di tre settimane non ha più senso, è anacronistica e obsoleta, stanca chi le corre e chi le guarda, bisogna puntare su competizioni brevi e nervose, massimo due settimane”? Spero di non passare per bugiardo o visionario ricordando questo movimento di pensiero, venuto avanti grosso modo con gli anni Duemila, portato a spalla dal modernismo ruggente, dalla cultura del mordi e fuggi, dall’estetica della velocità e della rapidità.
A me è tornato in mente subito dopo l’ultimo Tour. Io chiaramente non faccio testo, perché da parte mia vorrei grandi giri di sette-nove settimane, ma al netto delle mie perversioni resta il fatto oggettivo che tutto si potrà dire, non che le tre settimane dell’ultima edizione abbiano stufato. Certo tre sono più pesanti di due per i ciclisti, lo capisce anche un cefalo, ma se restiamo sul piano dello show, destinato al pubblico, continua a non esserci paragone. Un grande giro, come dice l’apposito aggettivo, deve essere grande. Per livello, ma anche come dimensioni. Ne ero convinto da sempre, da questa estate ne sono ancora più convinto.
Questione di gusti personali? Va bene, certo, sui gusti non si discute e ci sta anche che qualcuno preferisca la cosa svelta, ad alta tensione, tappe brevi e carognette, comunque poche e concentrate, una settimana a perdifiato e vediamo chi è il più forte. È un’opzione. C’è chi non riesce a leggere un libro che superi le cento pagine, chi non riesce a sentire più di una singola canzone, chi preferisce un quadro a un intero museo. Nel caso specifico del ciclismo sopravvivono però alcune considerazioni basilari che non sono in discussione. E provo a spiegarmi.
In definitiva, bisogna partire da cosa si intenda per corridore più forte. Se il più forte deve essere il più rapido e il più scattoso, in definitiva il più veloce, allora possono bastare dieci tappe. Se invece cerchiamo davvero il superuomo fuori dal comune, che magari non è necessariamente il più elettrico, allora non ci piove: servono i tempi lunghi delle tre settimane. È quando la fatica e lo stress cominciano ad accumularsi che si capisce chi ha più fisico. È quando questo fisico, dopo aver già dato, viene persino messo alla prova sulle altissime altitudini, sopra i duemila metri, o in una cronometro cattiva, è in questi test estremi che davvero emerge, o resta a galla, il più forte e il più completo. Uno o più di uno, ci si capisce. Comunque, i migliori. Vale sempre la vecchia regola: chiunque può essere leone un giorno solo, pochi o pochissimi sono leoni sempre.
Cos’è la mia, un’apologia sadica del fachirismo più crudele e disumano? Io e quelli come me godiamo nel vedere i ciclisti in agonia? Non credo proprio si possa chiudere la questione così: tre settimane uguale cattiveria reazionaria, dieci giorni uguale rispetto dal volto umano. È semplicemente una pura questione di contenuti e di significati. Un grande giro è tale perché rappresenta una grande sfida. Certo, grande e lunga. In qualche modo estrema e spietata, perché gioca al gioco dell’eliminazione, della resistenza, della selezione. E gli ultimi che restano in piedi sono sempre i migliori. Non una cosa per tutti, alla portata di tutti. Una cosa esclusiva per pochi e scelti.
Tornando all’ultimo Tour, io avrei voluto che non finisse mai. Non perché speravo che prima o poi Pogacar riuscisse a staccare Vingegaard (e va bene, lo riconosco, un po’ sì), ma prima di tutto perché la sfida si è rivelata fantastica, ogni giorno di più, ogni giorno più bella e più incredibile, con il risultato di farci dire ma chi sono questi due, sono uomini o Nembo Kid?
Detto tutto questo, molto si può lavorare sul menu del grande giro. Magari limando qualcosa sugli eccessi, dosando i tapponi sopra i duemila, dosando certi chilometraggi di pianura, dosando le crono (mai più di 50 chilometri in totale). Queste sono questioni molto umane e molto sensate. Di questo bisogna discutere. Ma per favore mai più battaglie ideologiche del tipo aboliamo la terza settimana. Se così un giorno sarà, allora vediamo di ridurre anche il lessico: abolizione dell’idea e della definizione di grandi giri. Chiamiamoli giretti, quali sono. E amen.