Voto Saronni
di Cristiano Gatti
Averne di luoghi come TuttoBICI, web o classic, luoghi in cui non ci si limita a raccontare quant’è bello il mondo della bicicletta e quanto sono bravi i suoi abitanti, ma quando è il caso si prova anche a capire cosa non funziona. Ultimamente questo luogo ha setacciato in lungo e in largo addetti ai lavori di varia estrazione e di varia cultura per capire come mai il ciclismo italiano non se la passi per niente bene, lasciando microfoni aperti alle teorie e alle opinioni più diverse. Grande operazione, altro che sbrodolarsi sempre addosso di epica e di retorica, magari seppiate con almeno mezzo secolo di polvere addosso. Parliamo di oggi, di adesso, del presente, e proviamo magari a capirci qualcosa.
Personalmente ho seguito giorno per giorno il susseguirsi delle interviste. Devo dire che ogni volta mi sono ritrovato a dire sì, ha ragione, c’è del vero in quanto dice. Tutti cioè portano un pezzo di verità, classico caso in cui nessuno ha torto, perché chi parla ha una tale passione e una tale esperienza addosso da poter tranquillamente evitare di parlare a vanvera. In generale ciascuno ha portato un bel mattone. O ha contribuito a segnalare una magagna. Se devo essere sincero, io non saprei dire quale sia alla fine il problema più urgente. Mi sembrano tutti urgentissimi. Però da un po’ di tempo mi sono fatto l’idea che tra tutte le magagne giustamente segnalate ce ne sia una che le sovrasta e le influenza tutte. Dovendola riassumere, la metterei così: il ciclismo italiano soffre maledettamente la crisi della pratica giovanile. Parlo della pratica a larga diffusione, quotidiana, nei cortili e negli oratori, sottocasa e all’uscita dalla scuola. Parlo di come era l’Italia fino agli anni Ottanta, quando i ragazzini si dividevano tra quattro tiri al pallone e lunghe pedalate in giro per il quartiere, senza meta e senza traguardo. La bicicletta era nel bagaglio formativo senza che nessuno la proponesse o la imponesse. Non c’era bisogno della scuola di ciclismo, dei corsi di avviamento, delle dimostrazioni sui circuiti protetti di parchi e giardinetti. A livello di bicicletta, dopo i 5 anni ogni bambino italiano era saputo e prontissimo. Chiaro che poi qualcuno provasse pure il gusto di farne uno sport impegnato: così, sulla quantità, maturava sempre un bel parco ciclisti più o meno campioni.
La faccio semplice e spiccia per non cadere nel trattato sociologico. Ma tutti sappiamo di cosa sto parlando. E tutti sappiamo dove stia la tremenda differenza con oggi: quel mondo, quella cultura, quella dimensione intimamente popolare non sono più possibili. Adesso i genitori mai e poi mai manderebbero in giro per intere giornate i loro figli su una bicicletta. I pochi bambini che si avventurano fuori dal box di casa devono muoversi sotto scorta come magistrati nel mirino delle mafie. È chiara la magagna più magagna di tutte: il ciclismo non è più uno sport sicuro per i ragazzini. È uno sport temibile e difatti temuto, nelle famiglie. Non è solo un problema di mode e di benessere diffuso, per cui il buffet delle possibilità si è di molto allargato, dal nuoto al golf, dal padel al beach-volley. La concorrenza di altre discipline c’è sempre stata, penso agli anni del basket, del tennis, dello sci, della pallavolo. Ma mai e poi mai i ragazzini hanno smesso di pedalare. Non come oggi. Eccerto che lo so, ancora adesso c’è chi va in bicicletta: ma non è più un vero fenomeno di massa. Siamo alla minoranza, alla nicchia, alla marginalità. Esistono piccoli ciclisti come esistono piccoli schermitori, piccoli arcieri, piccoli canoisti. Ma le leggi dei grandi numeri non fanno più per noi. Così perché l’idea di andare in strada, sulle nostre strade, soprattutto nelle storiche regioni dei bacini più fertili - come Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia-Romagna -, questa idea si è fatta tremendamente rischiosa, terribilmente pericolosa. E dopo tutto anche più brutta e stressante, sempre meno divertente e immaginifica.
Mettiamocelo in testa: il ciclismo delle Accademie, delle scuole di avviamento nei velodromi, cioè dei format proposti ultimamente per superare la paura del sinistro stradale, non è per niente male, è una soluzione, non sarà mai minimamente paragonabile al grande ciclismo a larga diffusione di un’altra Italia. Di un’Italia che purtroppo non c’è più, perché indietro non si torna. E caso mai fossi io a sembrare troppo disfattista, ricordo comunque che ormai le corse per ragazzini sono sempre più decimate, così come le squadrette e i giovani istruttori, e cara grazia se qualche valoroso eroe ancora si ostina a seminare.
Detto questo, si capirà come trovare soluzione alla crisi contemporanea si riveli davvero impresa epica. Dal mio punto di vista, fuori dalla nostra portata. Perché non può essere il ciclismo a cambiare il modello di sviluppo e di progresso che l’Italia si è scelta, ammassandosi per strada, su tutte le strade. Per cui, comincerei a farmene una ragione: il mondo cambia, l’Italia cambia, il ciclismo cambia. Si restringe e si indebolisce. Mi piacerebbe tanto scoprire che non è così, ma al momento non vedo segnali rassicuranti. Al momento, mi sembra dolorosamente inevitabile dare ragione a Beppe Saronni, che recentemente ha parlato di ciclismo italiano avviato sulla mesta china di un penoso declino, fino a evocare il tetro paragone con il pugilato. Caro Beppe, non credo che il ciclismo finirà mai come l’estinto pugilato, perché la gente non gradisce più così tanto cambiarsi i connotati sfinendosi di cazzotti sul muso, ma per fortuna ancora gradisce farsi una pedalata. Però concordo sugli esiti: il ciclismo sarà sempre più uno sport di salute e di tempo libero, per età adulte, ma sempre meno per età piccine, data la pesante impraticabilità di campo. Tutto questo è ineluttabile, perché così la nostra società ha scelto. Magari un campione ce lo inventeremo di nuovo nelle Accademie o nei velodromi, ma non sarà lo stesso. Sarà espressione della scienza e della ricerca, della tecnica e dell'organizzazione, se mai riusciremo a darcene. Ma mai e poi mai, mai più, sarà la naturale e romantica espressione di un nostro modo d’essere. Quel genere di ciclismo, ormai, è affare per altri mondi e altri continenti, leggi Colombia, leggi Eritrea, che sono un po’ l’Italia dei decenni andati, quando la bicicletta non era una moda metropolitana o uno slogan ecologico, ma un semplice e spontaneo modo per vivere e sopravvivere.