Scripta manent
Il lavacro della storia
di Gian Paolo Porreca

Ieri abbiamo ritrovato, per un giorno almeno, i nostri eroi. E li abbiamo trovati, innanzitutto, amici. Succede di abitudine, quando si sfoglia un albo d’oro. Succede di più quando, semmai per lavoro, si è costretti a rileggere le cronache del passato integralmente, a spulciare fra i nomi del quotidiano, a sorridere dei refusi.
Cercavamo, in redazione a Il Mattino, le cronache di quella classica, il Giro della Campania, che riemerge quest’anno dalle acque. Credevamo di riuscire a fermarci agli ordini di arrivo, ai percorsi, alle formalità. Ed invece quella che doveva essere solo un’operazione di puntuale trascrizione meccanica, si è tramutata con spontanea naturalezza in una sorta di rilettura sentimentale. In una sorta di refrigerante lavacro del ciclismo ultramoderno, a fronte di pensieri e parole di soli dieci, quindici anni fa.

Ci siamo trovati innanzitutto rispettosi, se non correttamente dimensionati, noi che discutiamo e sentenziamo sul doping e sulle scorciatoie farmacologiche dell’ultima generazione, di fronte al narrato di certe vicende umane, di certe giornate di tregenda. Primo Petito, Petito Giuseppe, nel 1987, a Sorrento: sotto la neve, neve sul Picco Sant’Angelo, lì dove in primavera dovrebbe imperare la speranza dell’estate. Neve sulle strade del sole, 117 alla partenza, solo 37 all’arrivo. Vento e ghiaccio sulla corsa ed il re della pioggia di lingua italiana, Daniele Caroli, fermato da una crisi di fame. Che bello - o che brutto, ovviamente - un ciclista che è naturalissimamente fermato non da una carenza di globuli rossi, ma da una ortodossa mancanza di zucchero! Ed un compagno di fuga, Renato Piccolo, di cui confessiamo di non ricordare altro.

Oppure la rabbia vittoriosa di Franco Ballerini, sul vialone della Reggia di Caserta nel ’90. Aveva da cancellare, il corridore della Del Tongo - allora... - lo smacco incredibile dello sprint sgusciante a sorpresa di Rabottini, l’anno prima: sullo stesso traguardo. «Rabottini non l’avevo proprio visto...». E così, senza aver trovato il ritaglio del Rabottini sovrano dell’anno passato, ed affidando a tutti però il buon nome di quel gregario nato in Belgio, da minatori pescaresi emigrati, ci siamo beati della preparazione alla volata finale di Ballerini: Amadori che lo protegge sull’ultima salita, il timore di una ruota scentrata, una volata lunghissima, «i seicento metri più lunghi della mia vita». E ci è venuto da sorridere al pensiero dei rapporti molto personali con le beffe in volata, per Ballerini, fermo restando che si dovrebbe sentire sempre la versione dell’altro: Luciano Rabottini al Campania ’90, Gilbert Duclos Lassalle nella Roubaix ’93, Wilfried Peeters nella Gand del ’94.

E «la vittoria più inattesa della mia vita», confida un trentunenne Cassani, il 9 marzo 1992: uno sprint beffardo, a Sorrento, condizionato dalla tramontana - a proposito, ma il bel tempo ha sempre scioperato il giorno del Campania? - che disgrega un plotoncino di sprinter diversamente accreditati, da Zanini a Schur, da Fondriest a Spruch. Secondo, in ogni modo, tanto per non smentirsi, Franco Ballerini. Trentun anni, quel Cassani vestito della stima del direttore sportivo Ferretti e della orripilante maglia piastrellata della Ariostea, che confessava di aver vinto grazie all’esperienza. «Mi sentivo forte, avevo deciso di scattare sul Picco Sant’Angelo, ad undici chilometri dall’arrivo. Poi mi sono detto che se avessi attaccato sarebbero in un modo o nell’altro certamente riusciti a riprendermi e così mi sono frenato. E mi è andata bene, ascoltando la voce della mia coscienza». Ed è sempre coinvolgente, questo riferimento ad un valore trasparente e morale - la coscienza - che chissà se il Cassani di oggi riconosce tuttora in corso legale nei volti e nei modi di un ciclismo diverso.

Esfogliando la collezione ci siamo fermati in raccoglimento dinanzi a Roger De Vlaeminck che conquistava il Campania nel 1984. E vinceva a 37 anni, con la maglia della Gis, dopo aver deciso nell’inverno precedente di abbandonare l’attività su strada: «solo ciclocross e i cavalli», e quest’ultima passione francamente l’avevamo dimenticata.
Era la seconda vittoria per uno straniero - la prima toccò a Van Linden, nel 1976 - , con un podio tutto straniero, eccezione clamorosa per una gara dal trend spiccatamente nazionalista come il Campania: secondo Erik Pedersen, terzo Bruggmann. Ma al di là dell’evento finale, un titolo di centro ci colpiva particolarmente.
«Saronni confessa i suoi errori: mi hanno penalizzato le Sei Giorni di Milano e Parigi». Ed in fondo all’articolo, l’interrogativo: «saranno necessari pure per lei i suggerimenti del professor Conconi, capace della ricostruzione di Moser?» E la risposta: «Conconi? se ne è fatta di letteratura su questa storia. Sono stato da lui qualche giorno fa per un controllo e mi ha ribadito di essere fiducioso».

Era il 1984 ed era tardi e l’archivio de Il Mattino chiudeva su questa perplessità non richiesta, spalancata sui prodromi di un futuro ultrascientifico che sarebbe divenuto il nostro ossessivo presente. Per fortuna, a riportarci nel libro dei sogni, provvedeva quel boxino in alto a destra: «generosa fuga del napoletano Montella, solo per 80 km, con 10’ di vantaggio». Non sarebbe arrivato al traguardo, l’enfant du pays. Sì, proprio come il Saronni di quel giorno. Ma per noi, in tutta sincerità, con un’aureola di fantasia infinitamente più azzurra.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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