Scripta manent
Ma Dancelli vince ancora

di Gian Paolo Porreca

A cominciare, scri­ven­do per marzo 2010, cominciamo da una sconfitta ennesima, anche se ampiamente prevedibile, per “noi” e gli amici del ciclismo “nostro”. Cominciamo, dal registrare infatti il clamoroso «55 - 4» con cui, nel tardo pomeriggio di domenica 21 febbraio possiamo consi­de­rare concluso il match di sha­re, prendendo ad Osser­va­torio unico e supremo il Web ormai mitico di questa nostra testata, fra la notizia di Riccardo Riccò che si confessa ad Alessandra De Ste­fano su RaiSport e la scomparsa di Vanni Pette­nel­la, il grande pistard degli anni ’60. 55 interventi accesi sul ciclismo stra/parlato, contro i 4 dedicati al ci­cli­smo sobrio della gloria. Pun­teggio da rugby, o neanche tale, per non scivolare anche noi nel porgere una stolta pubblicità trasversale a quel madornale sport virile che ficca talora le dita negli occhi dell’avversario. Meglio, di­cia­mo, un punteggio da ba­seball. 55 a 4.

Incassa e porta ideal­men­te a casa, questa ve­rità che fa male. Tra l’in­teresse e il disinteresse. Ad ognuno, ovvio, il suo silenzio o le sue parole, ed il suo pu­dore. E ad ogni testata gior­na­listica, in specie quelle di stato, il diritto e il dovere di una equa informazione, con­centrata sull’attualità. E sui temi del giorno.
Ma suvvia così, 55 commenti contro 4, tra un ciclismo ed un altro, distacco abissale da tappone pirenaico tra un Cop­pi e l’ultimo dei gregari, con Pettenella in gioco, l’oro nella velocità davanti a Bian­chetto e l’argento nel chi­lo­me­tro da fermo, dietro Ser­cu, alle Olimpiadi di Tokyo 1964, il record incommensurabile di un surplace lungo più di un’ora - 1.03’05”... - con lo stesso Bianchetto nel­le semifinali del Campionato Italiano di Velocità del 1968, non ci sta affatto bene. Via così, con la irrisolta certezza personale che Pettenella, uno che ha battuto Trentin e duellato con Sercu, sarà sempre una storia, e non di­venterà mai una “breve”. Come certo nella sufficiente lettura di tanti media, con­gelati nelle pagine sulle Olim­piadi di Vancouver.

Al di là della provo­ca­zio­ne, lecita, e forse anche della sovra-esposizione mediatica di Ric­cò, il problema di una que­relle generazionale “nuovo-antico” nel ciclismo esiste. È vivo. Saremo noi malati ad­di­rittura di ciclismo su pista, forse, una patologia ormai inguaribile, o saremo ancor peggio portatori sani di una anagrafe che può renderci superflui, speriamo almeno non saccenti: ma con­tinui­amo tuttavia a chiederci qual è la soglia di attenzione e di cultura specifica dell’Ap­pas­sionato di Ciclismo di oggi. Cosa sa di ieri. Se l’oggi ob­bli­gatorio non è la sua ro­vi­na. E se, beninteso, sia pro­prio necessario, e non inutile invece, questo “ieri”.

E allora, scrivendo di ciclismo per marzo 2010, buttiamo lì non a caso una data da illu­mi­nare. 20 marzo 1970. 40 anni fa, noi siamo ancora lì. E deve partire da lì, in tandem, “antico-nuovo”, il ciclismo comune.
Quel giorno, quel sabato, Michele Dancelli vinceva la 61a Milano-Sanremo, in so­litudine. Di nuovo primo un italiano, diciassette anni do­po il trionfo di Loretto Pe­trucci nel ’53. Michele Dan­celli, da Castenedolo, pro­vin­cia di Brescia. In maglia Molteni, e in solitudine. Vit­toria del coraggio e della fan­tasia, fuggendo via dalla com­pagnia cinica di una doz­zina di favoriti destinati - De Vlaeminck, Leman, Bi­tos­si, Zilioli, Karstens -, con i quali si era involato nelle fasi iniziali della corsa. Via, a Loa­no, come un temerario, sull’abbrivio di un traguardo a premi, a ruota di Chiap­pa­no... 20 marzo 1970. 40 anni orsono. In maglia Molteni, Molteni di Arcore. In bella vista, a centro petto, “Arco­re”... Uno spot, allora, per il ciclismo. Una sigla in­du­stria­le, al mattino, promossa ad ideale plebiscitario, quel po­meriggio.

Aspettiamo a pedali fermi, stavolta, un nuovo eventuale con­­fronto di share, su pagina o sul Web, fra una ester­na­zio­ne qualsivoglia e l’onore dovuto ad una giornata me­mo­rabile. E siamo arcisicuri, anche per delega di Pet­te­nel­la, che quel Dancelli “lì” vin­cerà ancora. Da lontano. A mani alzate. In lacrime. Nel sole. Con gli applausi di tim­bro moderno, quasi bipar­ti­san, anche di quel ragazzo Riccò che la “Sanremo” già la ha amata, fin quasi a con­quistarla. E che ha capito, speriamo, lui e gli altri, che il ciclismo non è di ieri o di oggi. Ma è unico.

Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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