ANCHE L'ITALIA HA IL SUO FENOMENO
di Cristiano Gatti
Tempo fa ho cominciato a leggere un articolo su tuttobiciweb che apriva così: “Era il 1951 e Loreno Nottolini, longilineo ma possente passista scalatore, vinceva la prima corsa in assoluto del Team Fanini. A dirigerlo c’era Lorenzo Fanini, il capostipite di una dinastia che negli anni ha scritto un importante pezzo di storia del ciclismo mondiale (sia maschile che femminile). Ci sono le immagini in bianco e nero che immortalano quello speciale momento, che rimarrà sempre indelebile nella memoria sia della famiglia Nottolini che in quella Fanini”.
Lo confesso, mi sembrava di aver letto tutto quello che poteva interessarmi, stavo per passare ad altro, ma mi ha fregato (salvato) l’abitudine ossessivo-compulsiva che ho di non lasciare mai una lettura a metà. Grazie a questa mia dannazione, sono arrivato a un altro punto, e lì mi sono bloccato.
Riporto anche questo passo: “Purtroppo un’automobile ha spento per sempre la luce nella vita di Loreno, proprio mentre era in sella alla sua amatissima bicicletta. Andare in bici era tutto per lui e anche quando aveva smesso di correre, non passava giorno senza che non si dedicasse a lei. La lavava, la puliva, la sistemava con cura e con devozione, proprio come si fa con l’amore più grande della propria vita. Loreno Nottolini si allenava ancora quasi tutti i giorni e nonostante l’età di 90 anni, il suo spirito e la sua passione erano rimasti invariati, proprio come lo erano la voglia di pedalare su quelle strade che da giovane gli avevano regalato tante belle soddisfazioni e successi. Ed è proprio su uno di quei tratti d’asfalto, nei pressi di Porcari, che Loreno, nel pomeriggio dell’8 aprile, ha perso la vita, stroncata da una vettura che procedeva alle sue spalle e che lo ha tamponato ed investito in pieno, senza che lui potesse fare niente per evitarlo”.
Mi diranno: ecco l’occasione per un altro sterile, patetico, inutile pistolotto sulla (in)sicurezza stradale, sulla famigerata strage dei ciclisti, eccetera eccetera. No, non stavolta. Stavolta sono due le cose che mi hanno toccato più di tutto il resto: quell’età e quella passione. Lo voglio ripetere in questo periodo di Giro d’Italia, lo voglio innalzare dalla normale cronaca, facendone un monumento ideale: Loreno è morto - sì, certo, investito, un’altra tacca della famigerata strage - ma è morto pedalando a 90 anni. Questo stavolta colpisce. Maledizione, se non è poetica e commovente questa semplice immagine, un uomo di 90 anni che ancora pedala, con la felicità della sua età bambina, niente può essere definito romantico e poetico nel mondo della bicicletta.
Voglio dimenticare per un attimo l’incidente stradale. Vorrei invece che questo maggio di passione popolare utilizzasse il grande spot per vincere la tristezza e per riconciliarsi con il ciclismo italiano, ormai nei nostri pensieri vestito a lutto e con eterna faccia da lunedì mattina. Su con la vita, tutti quanti: Loreno è qui a dirci, ancora oggi, per sempre, che si può pedalare fino all’ultimo giorno, perché la bici - al netto dei farabutti che ti investono alle spalle - è salute fisica e mentale, è libertà e sollievo, è evasione e allegria. Loreno è qui a dirci che le passioni, quando ci sono, quando sono vere, tengono in piedi più delle vitamine e di tutto il resto. Soprattutto, Loreno ci dirà sempre che non bisogna guardare alla carta d’identità per vivere, per vivere come ci va, essendo questa l’unica cosa possibile a noi umani: finchè siamo vivi non ci resta che vivere.
Il ciclismo italiano ha bisogno di un suo Pogacar, anche qualcosa meno, ma per un momento non mettiamola giù così dura. In assenza del campione, in questo 2024 abbiamo un mito, per me assoluto e incontrastato personaggio dell’anno, da Notte degli Oscar tuttoBICI, perché per quanto mi riguarda è il più ciclista di tutti i ciclisti, autore della più grande impresa: sì, è Loreno, capace di farsi trovare dalla morte magnificamente vivo, a 90 anni, in bicicletta.