LE DUE ITALIE DEL CICLISMO
di Cristiano Gatti
Hai visto mai che molti di noi abbiano sbagliato indirizzo. O comincino ad andare via di testa. Certo tra di noi siamo sempre convinti di vivere in Italia e di osservare le faccende italiane. Parlando di ciclismo, ci sembra di vedere una disciplina in tremenda crisi, più che altro a livello di vertice, più che altro maschile, ma neppure questo in fondo è completamente vero, perché se la crisi riguardasse solo i professionisti maschi resterebbe posto almeno per la speranza, magari un periodo di via crucis e poi una bella Pasqua di resurrezione con le nuove generazioni di campioni a fare fracasso. Invece no, anche allargando lo sguardo non ci pare proprio di vedere tutta questa festa: andare in bici, semplicemente andare in bici tra di noi, chi a passeggio, chi in allenamento, chi per salute, sta diventando ogni giorno più difficile, rischioso, suicida. E difatti i ragazzini chiedono sempre meno la bici da corsa, e difatti anche quando la chiedono i loro genitori ci pensano tre volte prima di fare il regalo, anche solo per non condannarsi a un’esistenza di angosce e magari pure di tragici sensi di colpa, e difatti le corse giovanili sono sempre meno e sempre più contorte, senza contare che comunque viviamo pur sempre in una nazione capace di cancellare una corsa d’alto bordo a poche ore dal via, rimandando a casa corridori e compagnia cantante senza neanche tante spiegazioni (naturalmente parlo dell’ultima Adriatica Ionica Race, meglio detta AIR, perché non si dica che a livello di marketing non siamo fenomenali nell’inventarci i nomini tanto wow). Questa è l’Italia che vediamo noi. L’Italia che non ha più una squadra sua, l’Italia che manda all’estero i suoi uomini migliori, l’Italia che per trovare uno sponsor deve fare il voto alla Madonna di Fatima, l’Italia che per tenere in piedi la sua massima corsa (il Giro) deve elevare suppliche perché le grandi squadre mandino almeno una formazione B, l’Italia che vede il suo sport storicamente più popolare trasformarsi negli anni in un agonizzante sport residuale...
È per questo che noi ogni tanto crediamo di aver sbagliato Paese, o di essere un po’ svalvolati di testa. Perché poi in questo stesso Paese, che noi crediamo sia Italia e ci ostiniamo a chiamare Italia, leggiamo e ascoltiamo cose sublimi in sede di vertici istituzionali, narrazioni di un ciclismo in piena salute, di una nazione che si conferma tra quelle leader, con un settore crono che ci invidiano tutti (tutti chi?, ndr), una nazione in tale stato di grazia da centrare il secondo posto agli ultimi Europei nel Mixed Team Relay, che molti neppure sanno cosa sia, ma che - ci viene spiegato dall’alto - rispecchia “la bontà di un movimento”, insomma, pur rammaricandoci per le medaglie mancate - ma cosa vuoi che sia, ndr - il ciclismo italiano si dimostra in salute, con tanti complimenti a tutti dal presidente, atleti, tecnici e staff...
E allora cosa ci resta da dire. Cosa mi resta da dire. Niente. Alzo le mani e mi arrendo. Evidentemente sono cieco, oppure fuori di testa, anche se non saprei proprio cosa preferire. Alla fine, la diagnosi che mi faranno i Pangloss del Palazzo è sbrigativamente quella di gufo e disfattista. Sì, come se io, e quelli che la vedono un po’ come me, fossimo così cretini e tafazzi da godere di fronte a un malato tanto grave. Un malato così caro e così amato. Mettiamola a questo modo: capita nella vita di augurarci appassionatamente d’avere torto. Questo è uno dei casi. Io spero vivamente di vedere troppo nero, di avere problemi psichici tutti miei, talmente seri da impedirmi di pesare la realtà pura e semplice. Invidio chi sta così bene da avere ben altra impressione. Evidentemente scoppia di salute. Come il ciclismo italiano.