LA RESA "CONDIZIONATA" DEL CICLISTA"
di Gian Paolo Porreca
Gli ultimi giorni di agosto restano ancora, per me, i primi giorni di settembre. Sono stati e restano ancora, non so per quanto, i giorni dell’estate estenuata che vado a trascorrere al paese - se ci fosse ancora in verità un luogo in cui tornare, che non ci faccia sentire anche lì ospiti occasionali della vita -, nella casa di campagna di Carano, profonda provincia di Caserta.
Sono i giorni che a maggior ragione oggi, a scavalco dell’estate 2023, mi ricordano di Lance Armstrong, un campione del mondo che non desideravo affatto, quella domenica 29 agosto 1993 ad Oslo, sotto la pioggia battente. Campione del mondo dall’altra parte dell’Oceano, pensando alla Vecchia Europa, e di tutto un altro mondo suo - e altrui - che ci sarebbe stato illuminato crudamente molto molto tempo dopo.
E sono i giorni che io ho già in questa pagina rammentato, in altre ricorrenze in fondo roboanti, sono trenta anni ora da quel Mondiale, Armstrong il più giovane campione del mondo che la storia del ciclismo - dopo il Karel Kaers dell’anteguerra, 1934 - abbia conosciuto: neanche 22 anni di età, Armstrong, lui che era nato il 18 settembre 1971. Neppure Evenepoel meglio di lui ….
E ripensiamo tenacemente avvinti, in un tempo che continua ad elencare senza sosta e senza sconto tanti morti di ciclisti su strada, ultimo Tijl De Decker, a quel ragazzo biondo del mio paese, Leopoldo Perrone, che proprio di Lance Armstrong inatteso iridato ’93 era ammiratore - diversamente appunto dal sottoscritto, filoeuropeista - e che qualche anno dopo purtroppo sarebbe morto in bicicletta, sulle nostre strade che portano dall’entroterra al mare, urtato o travolto da un camioncino. Chissà allora come andò.
Ci pensiamo dunque tenacemente, in scia a questa accensione del cuore che resta il Mondiale del ’93 e alla sua attuale ricorrenza tonda, a verifica di una morte che resta drammaticamente sghemba, come il destino di quelle biciclette che diventano spigoli di metallo in terra, disarticolate dopo gli incidenti stradali fatali.
Ci pensiamo più cocciutamente, trenta anni dopo, e pure con all’attivo la notizia definita “confortante” della consegna alla giustizia italiana di quel camionista tedesco che ha interrotto tragicamente la corsa in bici di Davide Rebellin. Nel segno, senza freni, di una realtà irrefutabile.
Oggi, vedete, le mie strade di fine estate non sono più - come le vostre? - le vie della bicicletta. Fra le campagne e le piccole frazioni, Carano Avezzano Sorbello, non vi è oasi per una pedalata equa, da passeggio o da applicazione sportiva, no. Le strade, amici e lettori, anche le non Statali, anche le più umili provinciali appena tracciate di un asfalto che ben conoscevo a memoria, oggi - trenta anni dopo - offrono sempre maggiore e più libera ospitalità a tracotanti mezzi di trasporto Long Vehicle, tanto più frequentemente degli idilliaci trattori dei campi, e detonatori di ben altre velocità e spostamento di aria... Sono un turbine, un vortice multilingue, auto/articolati luminosi e sfavillanti, belli pure a vedere e certo necessari per la dinamica dell’economia indifferente alla umanità dei più deboli utenti della strada, una sovrana galleria del vento che ci ha naturalmente e progressivamente spostati più in là, noi ciclisti. Noi uomini di ciclismo. Ai margini. (Mi sa, anche della vita che conta). Non abbiamo mercato.
Io qui mi sono dunque arreso, ho lasciato la bici - una resa condizionata al volgere del tempo e del motorismo sfrenato -, su queste strade nostre che tolleravano a stento il transito contemporaneo di due berline, e dove lecitamente sfrecciano autotreni - la mia strada deputata è la fettuccia rettilinea che porta dalla Stazione di Sessa a Carano, cinque chilometri diritti fra i campi, da pedalare un tempo splendidamente - che la carreggiata se la divorano oggi per intero, famelici, o giù di lì.
Non ci passa più in serenità, né rassicurata da spazio protetto, una bicicletta: e forse è meglio così, più prudente scendere di di sella, farsela a piedi, non è conveniente il rischio, o la sfida, contro i potentati comodi della “logistica” (ci si difende, nel trasporto commerciale, con la corazza di un filosofico etimo, così. Ma sanno cosa è, l’hanno mai studiata, curiosità personale, lorsignori, la Logistica?). In bici io qui, mentre loro cercheranno alla domanda risposte congrue su Google, non ci andrò ad ogni modo piu.
Non tornano quei primi giorni di settembre che ci suggerivano una rincorsa sui pedali al mare. Come piaceva nel ’93 a Leopoldo Perrone, in un’altra stagione, che ha così brevemente consumato il suo futuro. Trenta anni di peggio.
Patteggiamo in prima persona per una resa condizionata alla rinuncia alla bicicletta, auspicando che qualche Ente o qualche Istituzione attenta, un Ministro, prima di altre vittime, proponga finalmente la riserva della strade minori della Penisola - gli “stradoni’ dei contadini - alle biciclette e ai veicoli dediti all’agricoltura, e a quelli dei lavoratori locali.
Vorremmo si disegnasse ancora uno spazio franco, senza aggressioni fortuite alle spalle, per il nostro canto libero. Che sia virtuoso non lo sappiamo, dopo Lance Armstrong. Ma è di certo il fruscio gentile, sensibile alle foglie e ai vostri nipotini, di una silenziosa bici trasparente.