SERIE A1 E SERIE A2
di Cristiano Gatti
Se una cosa abbiamo capito quest’anno, oltre al fatto desolante che gli iscritti alla Vuelta ormai il Giro se li può solo sognare, è che il ciclismo non è più uno. Sono diventati due. Diciamo meglio, per capirci: c’è una serie A/1 e una serie A/2. Ovviamente non mi riferisco a tutte quelle classi di merito inventate dall’Uci per fare soldi, dal World Tour fino agli inferi: no, intendo proprio nel ciclismo di vertice, proprio quello, proprio lo stesso che da anni ci avevano dipinto come il grande ciclismo del grande equilibrio, non come una volta, quando potevano pensare di vincere solo quattro capitani e gli altri dovevano solo portare le borracce...
Alla faccia dell’equilibrio. Alla faccia del livellamento in alto. Alla faccia degli ultimi luoghi comuni, amico, è cambiato tutto, ormai in gruppo tutti possono vincere. Sì, più seguo il ciclismo moderno e più mi sembra un ciclismo antico, come un continuo revival, come se avesse ingranato una potente retromarcia e fosse tornato rapidamente allo schema di una volta, in quattro o cinque si spartiscono la torta e gli altri si arrangino con gli avanzi.
Diciamoci la verità: nessuno vorrebbe mai trovarsi nei panni del nostro mitico Angelo Costa, che prima dei grandi Giri e delle classiche monumento deve squadernarci le “Dieci facce da eccetera eccetera”. Lui è valoroso, ogni volta apre il ventaglio e prova a dare qualche possibilità ad altri, anche solo come speranza e incoraggiamento. Ma tutti sappiamo, lui per primo, che tanta fatica è solo romantica. Ormai in ogni corsa vera, grossa, prestigiosa, basterebbe la rubrica “Due, massimo tre facce da eccetera eccetera”. E via andare, agili e svelti, senza tanta fatica, senza spremersi le meningi inutilmente.
Se la corsa è vera, nel senso che attira come mosche i migliori (per davvero), ormai tutti quanti sappiamo come sarà la sinfonia: nei grandi Giri Vingegaard-Pogacar, magari presto o tardi anche Evenepoel, nelle classiche monumentali Van Der Poel-Van Aert-Evenepoel. Non ci si scappa. Lo so, si evitino tutti lo sforzo di ricordarmelo, “la sorpresa è sempre possibile”. E certo, ci mancherebbe pure. Ma infatti la chiamiamo sorpresa proprio perché non è attesa e prevista.
In realtà, basta andarsi a rileggere gli ordini d’arrivo di quest’anno per capire cosa intendo dire. Ormai se la spupazzano le belle facce della serie A/1, circolino ristrettissimo per pochi scelti. Roglic ha vinto il Giro, ma chiedo con cuore affranto: che attendibilità può avere, in questo discorso, una gara che non vede schierata la A/1, riservata solo alla A/2?
Piuttosto, anziché andare alla ricerca del pelo nell’uovo, potremmo impiegare questo tempo per rispondere alla domanda immutabile: il ciclismo dei sempre quelli, dei sempre gli stessi, è più bello o più brutto del ciclismo democratico, in cui il livellamento da A/2 non consente mai di fare un vero pronostico, obbligando Angelo Costa a valutare la possibilità di lanciare “Venti facce da eccetera eccetera”?
Siamo al solito capolinea. La risposta? Dipende dai gusti. Meglio un Van Der Poel che prende tutti a sberle e arriva da solo, oppure un bell’arrivo con gruppetto da dodici? Meglio Roglic-Thomas che decidono un grande giro in dieci chilometri di cronoscalata finale, sul filo dei secondi e del cambio di bici, o la prevedibilissima colluttazione tra Vinge e Pogacar, tutti gli altri già a un quarto d'ora dopo la prima settimana di Tour? Nel mio piccolo non ho mai cambiato idea: mi piace restare a bocca aperta davanti al fuoriclasse, fuori dalla nostra portata, capace di inventarsi cose che noi umani nemmeno eccetera eccetera, tutta la vita scelgo il campionissimo che gli altri possono solo sognarsi di battere, e quando ci riescono difatti diventano eroi. L’equilibrio dei normali non mi ha mai esaltato. Ma è chiaro che sono gusti. Vanno tutti rispettati. Anche quelli che preferiscono i Maneskin a Lucio Battisti.