Le metafore del ciclismo e il marmo di Coppi per sempre
di Gian Paolo Porreca
Non c’è più spazio per il ciclismo, ok. Vige a vele spiegate la abrogazione del ciclismo, come se questa disciplina fosse un reato o un oltraggio ai tempi, sui quotidiani cartacei.
Non uno trafiletto, poniamo, per le scomparse minime di Karstens e Armani, pfui, e neanche un box su certi quotidiani che ben conosciamo a rifinire il menabò per la fine di Ercole Baldini o di Vittorio Adorni, complice l’alibi forte semmai della occasione di un giorno festivo per la stampa.
E così ci ha colpito di contro l’incredibile e sovrano ricorso al gergo e alle figurazioni del ciclismo, in un recente confronto televisivo su Quarta Repubblica, fra un direttore di giornale e un ex Primo Ministro, sul problema del Superbonus e dei risvolti economici ad esso correlati.
Mon dieu por diablo, questo precario ciclismo che è blasfemo citare sulle colonne con nome e cognome, Remco Evenepoel Wout Van Aert
Filippo Ganna, diventa uno slang se non un parallelo nobile per un dibattito televisivo, come se l’immaginifico di questo sport fosse ancora monarchico, nel lessico repubblicano dell’Italia.
«Maglia rosa» e «maglia nera», ok, ed eravamo abituati all’utilizzo inflazionato di queste immagini che non citano il copyright di Malabrocca o Gimondi, ma stavolta si ricorreva - perché il ciclismo è stato coraggiosamente anche questo - alla metafora del doping nella economia. Superbonus al 110% e/o bilanci “dopati”, e “che maglia rosa al Giro è mai il rilancio dell’edilizia, se poi all’antidoping dei conti statali ci risulta positivo?”.
Ciclismo necessario, dunque, per dover chiarire i concetti agli italiani e insufficiente per poter narrare una emozione. Prendiamo atto, dell’emarginazione snobistica dalla nazione calciocentrica, senza poter fare molto di più.
Ma sarà già molto di più, grazie al Giro d’Italia di maggio, se vedremo diventare davvero realtà un progetto caro alla passione dei ciclisti della Campania, se non del Centro-Sud intero.
E già, nel capoluogo di regione, Napoli, si fa strada l’ipotesi di creare alfine qualcosa di memorabile, e non un sequel per un calciatore celebre come Diego Maradona, che ha già sottratto rapinosamente il trofeo di uno stadio a un santo come Paolo di Tarso, bensì per quella figura irripetibile che è stata, ed è ancora, Fausto Coppi.
E sì, per Fausto Coppi, che proprio dall’approdo in Campania, sbarcato a Salerno come prigioniero “collaborante” alla fine della Seconda Guerra Mondiale, riprese la strada per la gloria. E che un legame intenso avrebbe consolidato con i percorsi e le ascese del sole, il Chiunzi l’Agerola Pompei, e le sue due vittorie consecutive al “Campania” del ’54 e del ’55: due successi strepitosi, il primo fra l’altro in maglia iridata, sul Velodromo dell’Arenaccia, intitolato al generale Alberico Albricci, che fu un eroe fiero della Grande Guerra.
Qualcuno si è alfine ricordato che Coppi, giusto a Napoli, sinora non ha meritato nè un impianto sportivo, e passi in giudicato, ma neppure una via, uno spiazzo, un parco. Ha guadagnato solo i graffiti degli sguardi sui bordi dei tornanti.
Napoli, città distratta dai fumi e dai fuochi fatui e dai cantanti, vorrà per lui forse edificare qualcosa di simbolico che guardi in alto, come il suo profilo di airone senza pace se non la malinconia.
(E non ci sarà bisogno, l’amore piantato in una stele costa poco, come le iniziali di un sentimento sul tronco di un albero, del Superbonus truccato di doping al 110%).