Le lacrime del calcio
di Cristiano Gatti
Siamo in una valle di lacrime, ma non tanto per dire. Siamo inondati dai pianti e dagli strepiti per questo povero calcio, sommerso dai debiti, dagli scandali contabili, dai timori retrodatati di doping, e pure dalle vergogne bellico-autostradali. Oddio che dolore, ossignore quanta pena e quanta tristezza. Il calcio è l’amore degli italiani, come si fa a vederlo ridotto così.
Come si fa: lo si guarda e se ne prende atto. Il calcio non si è ridotto così per gli influssi malefici delle congiunzioni astrali o per le macumbe di qualche sciamano pervertito: il calcio è conciato da sbattere via solo grazie a chi frequenta, gestisce, sfrutta il calcio. Ci stanno dentro tutti, a cominciare da certi presidenti squali fino a certi giocatori decerebrati, passando per procuratori parassiti e tifosi delinquenti. C’è tutto un sistema che specula, succhia, bara. Il primo e unico pensiero sono i soldi - e da questo punto di vista il calcio non è certo una repubblica isolata -, ma nel modo più avido, nevrotico, disinvolto, cinico che si possa immaginare. Tutto il peggio che la società moderna ha prodotto in termini di scorciatoie, maneggi, furbate, è massimamente espresso e sperimentato nel calcio.
Ma cosa deve fare allora chi ha sempre preferito altri ambienti e altre discipline, tipo la gente del ciclismo: piegarsi in due dal ridere, godersi lo sfacelo come Nerone davanti a Roma che brucia, aspettarsi la fine del toro come alla corrida? La tentazione magari è inevitabile, però conviene darsi un freno. Il crollo del calcio non fa bene a nessuno, neppure a chi sta fuori dal calcio. Perciò, la vera speranza è che presto o tardi - diciamolo: ormai tardi - anche in questo sistema arrogante e impunito arrivi lo spazzaneve morale e giudiziario, per liberare le strade e riprendere una normale circolazione, in cui il semaforo rosso significhi alt e non una sacco di scappatoie fuorché alt. Certo è difficile essere ottimisti, perché già in altre epoche e per altre vicende il corpaccione del pallone è sembrato andare giù. Salvo aspettare i tempi tecnici della rimozione e alla fine buttare tutto in commedia, riprendendo da capo, se possibile sempre peggio.
Non è più il caso di avviare tanti pistolotti etici: troppa stanchezza, troppe ripetizioni, troppo sconforto lo impediscono. Bisogna solo aspettare e augurarci tutti quanti che almeno certo sfrenato e strafottente bullismo sparisca, lasciando il posto ad una parvenza di normalità, in cui la furbata e il reato siano le eccezioni da stroncare sul nascere, non l’esempio da seguire come una stella polare. Detto questo, riconosciuto che godere del cataclisma altrui è stupido e puerile (anche controproducente), possiamo però fermarci con il buonsenso e il fair-play. Mai scadere nel buonismo e nel perdonismo. Perché poi si apre il rischio peggiore, cioè la faciloneria della pacca sulla spalla, poveraccio capitano tutte a te, dai voltiamo pagina e ricominciamo come se niente fosse.
Con il calcio, è l’unico errore da evitare. L’errore fatale. Questo invece è il momento per mantenere la barra ferma, senza farsi agitare l’animo compassionevole del colpo di spugna, anzi pretendendo di farla pagare cara e tutta a chi ha combinato il disastro, possibilmente avviando i peggiori all’agricoltura, magari per sempre. E quanto all’indulgenza comprensiva, deve esserci un limite. Attraversare il deserto tocca a tutti, prima o poi. Per restare in tema, possiamo ben dirlo noi del ciclismo: quando la fine degli anni Novanta ha scaraventato sul gruppo la catastrofe del doping, nessuno s’è mostrato tanto carino e compassionevole. Piuttosto, hanno tirato tutti sul piccione, con gusto sadico, compiacendosi della strage. E magari restandoci male quando saltava fuori anche un innocente. Nessuno ha chiesto indulgenza e comprensione per il ciclismo dopato. Tanto meno s’è parlato di colpo di spugna e perdono immediato. Abbiamo visto scorrere il sangue, il dolore, la sofferenza. Tutti hanno avuto la loro parte, persino i tifosi che si sono ritrovati il giocattolo a pezzi, senza sapere se e quando si sarebbe riusciti a rimetterlo assieme. Senza rinfacciare meschinamente, ma per non dimenticare nulla, forse il più sadico e impietoso allora fu proprio il calcio, se vogliamo dirla tutta. Sul pulpito a lanciare sentenze, anatemi, censure. A ridere di noi, lo sport dei dopatoni.
Sia detto senza rancore, senza spirito di rivalsa, ma anche senza anello al naso: amici del calcio, questo è il momento della verità e della vergogna. Bisogna passarci, senza chiedere sconti e senza pretendere di sorvolare. Servirà tanto tempo, ma bisogna saperlo usare. Il ciclismo non è ancora uscito dal suo purgatorio, i danni sono incalcolabili, come si può notare anche dalle condizioni in cui versa quello italiano. Ma non ci sono alternative. Per cui: zitti e pedalare (vi prestiamo pure la metafora). Una volta ciascuno nella polvere. Magari, la prossima volta, non vi scapperà più da ridere in faccia agli altri disperati.