Van Springel e il sorriso dell'autunno '69...
di Gian Paolo Porreca
Sia stato Herman o Hermann di primo nome, ma quel Van Springel, poniamo nel tentativo abbozzato di traduzione sinonimo di “della primavera”, ci manca davvero più del lecito. O del pubblicamente comprensibile.
Noi siamo stati presenti sentimentalmente, questo è il problema condizionante, dovunque lui sia stato, il faccione generoso, negli ordini di arrivo ubiquitari dei suoi anni - e come era mirabilmente a portata di cuore, quel ciclismo -, da raro vincitore, anche campione nazionale pure, e una Gand e una Parigi - Tours, e comprimario pero’ perfetto.
Noi siamo stati con lui Molteni e Rokado, Ijsboerke e Safir, ma siamo stati innanzitutto gli appassionati di quella squadra delle sue stagioni di esordio, la Dr Mann - Grundig con quel primo sponsor farmaceutico dalla sigla di alchimista più che di industriale, che avremmo un giorno scoperto avere una maglia di colore giallo con le mezze maniche azzurre.
E già, perché Van Springel è altresì - per il nostro ciclismo soggettivo - l’attore caratterista di una disciplina che trapassava nel video dal biancoenero di una uniforme, con tante sfumature di grigio, al caleidoscopio rutilante delle livree di uno sport moderno post - anni ’70.
Van Springel, e quelle sue metafisiche Bordeaux-Parigi vinte tante volte, un po’ in proprio un po’ dietro motori, ma pur sempre per una distanza da Napoli a Firenze o viceversa da coprire, oltre 600 chilometri, in quella rappresentazione della condanna a vivere che era la messa in scena più letteraria del ciclismo.
Van Springel, e metti pure gli insuccessi nei tre Giri maggiori, con un minuto di troppo dal primo e una reverenza puntuale sul podio. Il Tour ’68 da Jan Janssen, detronizzato dal successo in una crono finale. Il Giro del ’72, quando ribadì di non essere l’alternativa a Merckx, dietro Gösta Pettersson e Ugo Colombo. La Vuelta del ’70, terzo alle spalle di Luis Ocaña e Agustin Tamames…
Van Springel, e la nostra lineare colpevole felicità di essere talora ciclista perdente.
Anche quando, Campionato del mondo ad Imola nel ’68, primo giorno di settembre, il più bel pomeriggio che si ricordi, a vincere fu la favola blu di Vittorio Adorni. E lui, rivedetelo sul podio, fu secondo e primo degli altri, ma radioso, a 9’50’’... E sorrideva, puntuale, anche un distacco esteticamente ornato, la virtù del sorriso, al lato alto della gloria.
Van Springel, e neanche il correttore automatico lo riconosce nella battitura, e vorremmo scriverne tanto di più, ma a chi puo’ interessare?, e fu infine massimamente emblematico per noi al Giro di Lombardia.
L’autunno successivo, era il 1969 - ma voi auspicate già autunni successivi al vostro prossimo? - a quello del 1968, quando il Lombardia l’aveva conquistato proprio lui, splendido prezioso successo, davanti a Bitossi e a Merckx.
Il Lombardia giusto del 1969, diciamo, e quel suo podio incredibile che oggi non esiste più, se non nella tenerezza di una pagina.
Primo, e poi squalificato e cancellato per doping, Gerben Karstens. Secondo, scomparso tragicamente nel 1971, Jean Pierre Monseré. Terzo, appunto, Herman o Hermann Van Springel. Il podio di una corsa, le foglie vivamente morte, rimosso adesso dalla confidenza della memoria.
(Quarto, Bitossi, certo, ma su quello scranno del podio allora, a Como, Bitossi non salì).
Era autunno, ancora, primo sabato di ottobre. Con Van Springel terzo, e ora nulla più da tenere a mente, in un ultimo autunno “della primavera”.