di Pier Augusto Stagi
ROULETTE RUSSA. Il Tour che sta per partire sarà un terno al lotto, una lotteria, fors’anche una roulette russa. Sarà una corsa indecifrabile e precaria come poche altre volte, non tanto per un cast di livello che in ogni caso c’è e si vede, ma per via di questa preoccupante nuova ondata di Covid che trova terreno fertile nei protocolli al momento in essere nelle corse del calendario Uci. La caducità della Grande Boucle è evidente, mai come questa volta. Un corridore, anche asintomatico, se risulta positivo va a casa. Puoi essere maglia gialla, verde, bianca o a pois, poco importa. Vai a casa. Non hai una linea di febbre e non hai tosse o raffreddore, neanche mal di testa? Fai le valige e te ne torni da dove sei arrivato.
L’Uci non ha colpe, non è un problema suo, tutto nasce e finisce con le linee guida dell’OMS, l’organismo mondiale della sanità. Se il Covid viene considerato pandemico, c’è poco da fare. Se dovesse virare in endemico, i protocolli si aggiornerebbero di conseguenza. Per il momento si torna da dove si è partiti, almeno nel ciclismo. Come nel gioco dell’oca si torna al punto di partenza: mascherine, bolle, interviste a distanza, nessun contatto con nessuno. I corridori devono essere protetti e salvaguardati, basta un niente per mandare a monte tutto quanto.
Giusto o sbagliato, poco importa: è così. E noi non ci possiamo fare niente, se non incrociare le dita, pregare la Madonna e tutti i Santi, per i nostri ragazzi, per i nostri beniamini e per lo spettacolo. Per quei poveri cristi che si troveranno a primeggiare e rischiano seriamente sul più bello di veder vanificato tutto per un tampone molecolare maligno che vira in positivo. Il Vlasov che, dopo aver vinto la tappa e conquistato la maglia di leader, è stato costretto a tornarsene a casa dal Giro di Svizzera non è un’uscita provocatoria, ma un’eventualità, un monito che la dice lunga sull’incertezza che regnerà al Tour nelle prossime tre settimane.
È chiaro che non lo trovo giusto. È altrettanto chiaro che se siamo tri-vaccinati, siamo a metà dell’opera se non di più, perché non rischiamo l’ospedalizzazione e le terapie intensive: la morte. È chiaro che i vaccini servono a difenderci e il gruppo è tutto quanto protetto, quindi questo Covid, almeno per i corridori, dovrebbe essere davvero considerato alla stregua di un’influenza, ma queste sono solo chiacchiere da bar, perché la sostanza è che ci sono di mezzo delle disposizioni sanitarie, delle linee guida e quelle fanno fede. Dobbiamo anche noi averne tanta di fede e sperare che questo Tour non sia trucidato da casi di positività: questo è l’unico aspetto negativo della cosa. Sperare che anche al Tour non ci siano casi Vlasov modello Giro Svizzera. Che poi non si capisca bene perché il corridore della Bora Hansgrohe corra benché russo, questo è tutto un altro discorso. Per la serie: un russo gioca alla roulette russa.
LOW COST. Non vorrei tediare oltremodo, metterla giù dura e criminalizzare chi in ogni caso si sta sbattendo e cerca di fare - come ognuno di noi - del suo meglio. Torno per un attimo sulla questione giovani, sulla crisi di vocazioni e sulla crisi in generale, che forse non riguarda solo il movimento giovanile italiano, ma tutto il sistema Italia, che è chiaramente in affanno.
Forse non è il caso di farla troppo grossa, perché è vero che in Francia il prossimo anno potrebbero esserci quattro, dico quattro squadre di World Tour e ciò nonostante questo non garantisce vittorie ma tutt’al più posti di lavoro. Non certo titoli o Tour de France, visto che fino a prova contraria i francesi non vincono la Grande Boucle dal 1985, anno di grazia di Bernard Hinault, mentre noi, poveri tapini l’abbiamo vinta nel ’98 con Marco Pantani e nel 2014 con Vincenzo Nibali. Per non parlare della Spagna, aggrappata a quel prodigio della natura che risponde al nome di Alejandro Valverde e che dopo Contador ha per il momento abbassato la saracinesca in attesa di Juan Ayuso. Hanno la Movistar, ma anche quella fatica. Il paradigma “squadra World Tour uguale campioni” non è assolutamente supportato dai risultati. Mettiamoci il cuore in pace.
È chiaro che siamo di fronte ad una sempre più consistente e massiccia polverizzazione, va detto e ripetuto: questo è davvero un ciclismo globalizzato e planetario. L’Eritrea è lì da vedere e non è più solo e soltanto folclore. Però, una piccola riflessione va fatta e l’aggiungo al dibattito di cose dette e scritte in queste settimane. Forse il progetto Continental - da me mai digerito e appoggiato - ha mostrato chiaramente almeno a casa nostra la sua esuberante e totale inutilità. Nonostante i mille problemi, abbiamo una nostra storia e cultura che va tutt’al più rinnovata o aggiornata. Cosa fanno all’estero, dove hanno meno bacino di noi e meno squadre? Portano in giro per il mondo i loro ragazzi a fare esperienze. Ai ragazzi non danno in pratica quasi niente, perché in realtà assicurano il bene più prezioso che è un’esperienza internazionale. I soldi che risparmiano in emolumenti, li utilizzano per comprare biglietti aerei, stanze di albergo e carburante per le ammiraglie. È una scelta: dare la paghetta ai corridori per vincere le corse sotto casa o dare loro la possibilità di misurarsi con il resto del mondo? La risposta, penso, sia quasi pleonastica, per non dire scontata: proprio come un biglietto aereo low-cost.