Editoriale
SIMEONI, LO RIPRENDO ANCH’IO. Lo confesso, non mi ha convinto molto la pagina che La Repubblica del 13 febbraio scorso ha realizzato per ricordare Marco Pantani. Men che meno il titolo: «Caro Marco, perché non parlasti?». A dirla tutta mi è piaciuta pochissimo la scelta da parte di Emanuela Audisio, una delle più felici e godibili firme del quotidiano diretto da Ezio Mauro, di intervistare Filippo Simeoni, «il primo e unico pentito delle due ruote. Per molti suoi colleghi un appestato, un traditore, un bastardo», così scrive.
Lo confesso, sono stufo di leggere che Filippo Simeoni è un pentito. Come ho già avuto modo di dire, Filippo è «un reo confesso». Il termine pentito presuppone il fatto che l’imputato collabori con la giustizia a tal punto da coinvolgere altre persone, aprire nuovi spiragli. Simeoni non ha mai fatto nulla di tutto questo. Simeoni, messo spalle al muro da un giudice della Repubblica Italiana, ha dovuto ammettere le proprie colpe, e confermare anche il suo rapporto con il preparatore Michele Ferrari. Per questo Filippo Simeoni ha pagato con una squalifica. Fine.
Lo confesso, non mi è piaciuto nemmeno che sia stato ricordato Marco Pantani come un dopato e Filippo si sia prestato a questo gioco. In tutta la pagina si parla solo di doping, quando sappiamo perfettamente che la storia di Marco Pantani è soprattutto quella di un uomo disperato, che il 5 giugno del 1999 non ha accettato il verdetto di una macchinetta ematica ed ha finito, per sconforto e rabbioso orgoglio, per imboccare il tunnel senza ritorno della droga, quello della cocaina, di cui nell’articolo non si fa assolutamente cenno.
Lo confesso, sono anche stufo di leggere interviste a Filippo Simeoni in materia di doping, l’ho detto anche al diretto interessato. Non c’è nulla di che vantarsi. Non ha fatto proprio nulla di eroico: ha semplicemente parlato perché non poteva fare altrimenti visto che era in un’aula di tribunale con un giudice che gli sventolava sotto il naso un’agenda (la sua) con prove schiaccianti. Sul gruppo e su Armstrong che nell’ultima edizione del Tour andò a riprendere il laziale entrato in una fuga, siamo chiaramente dalla parte di Pippo. Ma lo confesso: preferirei un Simeoni in fuga anche da queste polemiche. Per questo - con modi un po’ diversi da quelli adottati dal texano -, ho deciso di riprenderlo anch’io.

MEGLIO TARDI CHE MAI. È quasi passata sotto silenzio, diciamo che pochissimi per non dire nessuno ne ha parlato, ma anche la Spagna avrà presto un «piano nazionale anti-doping» che permetterà, per la prima volta, di fare analisi del sangue agli atleti ed applicherà sanzioni penali per chi procurerà sostanze dopanti.
Il piano nazionale anti-doping, presentato dal sottosegretario allo Sport, Jaime Lissavetzky, prevede la partecipazione di magistrati e della polizia, controlli in ospedali e farmacie e la riforma del codice penale, così come la creazione di un’Agenzia spagnola anti-doping. «L’atleta non è sospettato di niente, ma vogliamo un sistema trasparente e ottimo per la salute pubblica. Si tratta di un piano integrale a favore dell’atleta e i cittadini», ha detto Lissavetzky. «Io non sono favorevole alla punizione penale per l’atleta ma auspico sanzioni sportive durissime per chi si dopa», ha sottolineato il sottosegretario.
Scommettiamo che il fenomeno Spagna - e i suoi fenomenali atleti -, tra non molto, sarà meno evidente e sfacciato?

SAN FRANCESCO AL CAMPO: SANTO. Adesso è ufficiale: il primo velodromo coperto polifunzionale in Italia sorgerà a San Francesco al Campo, nel Canavese, in provincia di Torino, dove già sorge un impianto scoperto e dove notoriamente si spreca l’attività ciclistica (bastano i tesserati della provincia di Brescia per sotterrare numericamente tutti i praticanti della Regione Piemonte). I fondi necessari - circa 11 milioni di euro, ma vedrete ne occorreranno molti di più - sono stati stanziati dalla Regione Piemonte (5 milioni e 400 mila euro) e dalla Federciclismo che ha fatto un bel debituccio qualche anno fa con il Credito Sportivo (6 milioni di euro per l’impianto di Treviso che mai nascerà perché la Cimolai Armando, impresa di costruzioni di livello mondiale che si aggiudicò l’appalto europeo, ha denunciato la Federciclismo per progetto inadeguato. In sintesi il progetto era sottostimato, occorrevano molti più soldi di quelli previsti. Il risultato? Il Comune di Treviso ha denunciato la Federazione e lo stesso ha fatto l’impresa che ha sede a Pordenone. Come è finita? La Federazione ha pagato entrambi. Altro dato: riuscirà Ceruti a far trasferire questo finanziamento da Treviso a San Francesco al Campo? E altro particolare, Ceruti fa parte del consiglio d’amministrazione del Credito Sportivo, ma per lui non vale il conflitto d’interessi? Domande, soltanto domande...).
Torniamo alla pista. L’anello in legno avrà uno sviluppo di 250 metri. I lavori dovrebbero iniziare nel 2006 per concludersi nella primavera del 2008.
Che dire? Almeno due cose. Comunque vadano le elezioni, il direttivo uscente, nella persona del suo presidente Gian Carlo Ceruti, ha fatto quello che ha voluto: fino alla fine. Forse si è voluto portare avanti, ma un codice etico avrebbe dovuto suggerire un po’ di buona volontà e buon senso: un direttivo uscente è buona regola che non faccia programmi per altri. Ceruti no, ha rinnovato tutto, sponsorizzazioni tecniche (Sportful e Skoda) e quant’altro, facendosene un baffo di chi verrà dopo di lui. Ha rinnovato contratti a collaboratori e, ciliegina sulla torta, ha firmato questo bel progettino a San Francesco al Campo, che sorge tra la desolazione più assoluta, tra un cimitero e un aeroporto (Caselle). Ma vogliamo poi parlare della collocazione: chi andrà nel Canavese ad allenarsi? Critichiamo le «cattedrali nel deserto» sorte in Puglia o in Sicilia e rischiamo di averne un’altra nel Canavese, sic!
Forse Ceruti ha però voluto «mandare un messaggio» forte, chiaro e soprattutto imperituro: la pista è morta e San Vincenzo al Campo (Santo) è il luogo ideale dove farla riposare in eterno. Che la terra le sia lieve.
Pier Augusto Stagi
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