di Pier Augusto Stagi
FATELO PER VOI. Ne sono quasi certo: se sull’ammiraglia della Jumbo-Visma ci fosse stato un tecnico italiano, un Martinelli o un Zanini, un Bramati o un Baldato, un Cioni, un Damiani o un Giovanni Ellena, ma anche uno Scinto e un Roberto Reverberi solo per fare qualche nome (mi scuso con tutti gli altri), Primoz Roglic il Tour de France non l’avrebbe mai perso.
Ho più di un motivo per pensarlo. In primis la storia di questa formazione olandese, divenuta negli anni corazzata, che in passato non ha certo brillato per lucidità e preparazione, mettendo in mostra limiti imbarazzanti. Negli occhi ho ancora le immagini del Giro 2016, quando sul Colle dell’Agnello Steven Kruijswijk cadde rovinosamente lungo la discesa innevata e rimase lì senza nemmeno una mantellina. Andarono tutti nel panico lasciando al proprio destino il povero corridore olandese. Quella era la Lotto Jumbo - oggi Jumbo Visma - ma invertendo i fattori il prodotto non cambia.
Roglic è chiaramente un corridore dalle forti leve, ma la sua testa ogni tanto fatica ad accompagnarlo, diventando un problema. Il team avrebbe dovuto supportarlo. Capire questo limite. Fare in modo di non giocare solo con una punta, ma provare a tenere in classifica Dumoulin e Van Aert per usarli all’occorrenza. Per non parlare della questione Pogacar: per loro - questi geni del tatticismo - il bimbo sloveno si sarebbe accontentato. Sarebbe rimasto buono buono a ruota fin sul podio di Parigi. Hanno letteralmente sottovalutato e ignorato l’avversario. Avrebbero potuto metterlo KO, e non ci hanno nemmeno provato. È probabile che nemmeno se ne siano accorti, della sua leggera crisi sul Col de la Loze. Un tecnico italiano avrebbe fatto tutti questi errori di valutazione? Io mi sento di dire di no. È vero, non ho la controprova e sarò anche un tantinello di parte, ma ci sono ormai abbastanza indizi per arrivare a questa conclusione. Quindi concludo: prendete un paio di tecnici italiani. Ce ne sono diversi, per ogni gusto. Fatelo non tanto per noi, ma per voi.
FATELO PER NOI. Adesso, però, parliamo anche un po’ di noi, con tutto il rispetto possibile per tutti. Lo sappiamo, questo è un anno particolare nel quale è stato già un miracolo riuscire a correre uno scampolo di stagione. Siamo stati bravi se non bravissimi a organizzare la ripartenza, a salvare eventi come il Mondiale, ma qui c’è da salvare il movimento del ciclismo italiano. Il dopo Nibali non c’è. C’è lui che tiene in piedi tutto, con qualche altro vecchio di assoluto valore, poi c’è un grande vuoto accompagnato da un grande boh. Che si fa? Continuiamo a sospettare del ciclismo sloveno o proviamo a fare qualcosa anche noi? Loro, gli sloveni, hanno atleti di rango in ogni disciplina da anni, perché credono nella formazione sportiva sin dall’età prescolare e scolare. Ogni mattina le lezioni incominciano con un’ora di educazione fisica, noi se riusciamo a farne una alla settimana è già un successo. Da loro si gioca e si impara a fare sport, da noi si gareggia alla morte con un unico grande obiettivo: far diventar campioni ragazzini che quando arrivano al professionismo sono già stanchi e appagati, per non dire viziati. Sforniamo in quantità industriale allenatori e preparatori, che vanno ad intossicare gran parte delle società giovanili di base con le loro dannatissime tabelle, il vero doping culturale di questi ultimi anni. Ragazzini di 12/13 anni che si trovano a fare ripetute, dietro moto e all’occorrenza anche “il lungo”, una volta alla settimana, quando sappiamo benissimo che all’estero - basta ascoltare le storie dei 21enni che stanno ribaltando il mondo - vengono da una multidisciplinarietà che non è data solo dalla pratica di ciclismo cross o mtb, ma da calcio e pallavolo, da sci, atletica leggera o basket. Tanti sport, molto divertimento, poca pressione: poi si vedrà. Noi, invece, vogliamo vedere tutto e subito. Portiamo al professionismo ragazzini che sono già tirati come se fossero ciclisti navigati. Margini di miglioramento? Vicini allo zero.
Non avendo più risorse economiche, molti sponsor e magnati appassionati dai team professionisti in questi anni sono passati a team Under 23 o Continental, ma da quando la crisi si è acuita con questa esasperazione che sa tanto di frustrazione da “vorrei ma non posso”, hanno deciso di destinarne una piccolissima parte dei budget a team di allievi e juniores. Insomma, si gioca a fare i grandi con i piccoli, con i ragazzini. Si trattano potenziali campioncini come Nibali, senza pensare a creare nuovi Nibali. Senza ricordarsi da dove viene Vincenzo e quale sia stata la sua storia, da che tipo di società arrivi: non certo da uno squadrone di riferimento, ma da una buonissima società di base.
Ci illudiamo di essere ancora la culla mondiale del ciclismo, senza comprendere che siamo in fin di vita. Urge comprendere i perché di questo Rinascimento al contrario. Di questa regressione culturale e sportiva sempre più evidente e preoccupante. Il mondo si è allargato, noi ci siamo ristretti. Guardiamo fuori dai nostri confini con aria di sufficienza e talvolta anche di sospetto: gli sloveni potenza dello sport, ma chi vogliono far fessi? Per poi scoprire che Marjan Simcic è stato nominato dal Corriere della Sera “vignaiolo straniero dell’anno”: è sloveno.