di Pier Augusto Stagi
Si può cominciare un libro su Michele Dancelli parlando di Roberto Visentini? Sì, si può perché Paolo Venturini l’ha fatto e l’ha fatto pure bene, con assoluta onestà intellettuale, con grande franchezza e diciamo pure con amore. Perché di amore si tratta. Amore per la verità e per un padre - il suo - che adorava il campione bresciano. Ne conosceva il talento e le capacità, papà Venturini. Ma anche Paolo amava quel Visentini campione ribelle e mai convenzionale che un bel giorno incontrò al fianco di Dancelli Michele da Castenedolo del quale il giovane Paolo sa poco più di nulla. Da qui parte la storia, fatta di memoria e conoscenza. Non importa sapere, l’importante è cogliere l’attimo, il momento, per mettersi nella condizione di imparare e apprendere.
Parte da qui Paolo Venturini, dall’amore per il proprio beniamino e dalla scoperta quasi casuale di un corridore che merita di essere raccontato, conosciuto e per certi versi anche riscoperto. Un campione, perché di campione si tratta, che si è forse concentrato troppo poco sul suo essere talento e ha fatto troppo poco per diventare personaggio. Dancelli è un uomo semplice e dalla simpatia contagiosa, avrebbe avuto tutto per diventare anche una star del pedale, ma ha sempre avuto altre priorità, magari inseguire qualche bella ragazza, non certo i potenti, gli opinion maker, men che meno i giornalisti.
Un uomo che ha colto il momento di slancio il 19 marzo del 1970, tirando dritto dopo un traguardo volante che gli valse una medaglia d’oro, e quella che i francesi chiamano una debandade, una fuga precipitosa per non dire folle è diventata per lui il trampolino di lancio per raggiungere uno dei traguardi più ambiti da un corridore ciclista: la Sanremo.
Se fosse stato per Giorgio Albani quell’azione doveva terminare lì, con un traguardo volante e la medaglia d’oro messa in palio dall’hotel Cabiria in tasca. Invece giamburrasca Dancelli ha fatto di testa sua, come era solito fare e ha tirato dritto. Quella era davvero una fuga folle e suicida, ma con la logica non si fanno le imprese, e anche la tanto decantata e iconica Cuneo-Pinerolo di Coppi, se solo si fosse usato il buonsenso o il manuale del buon ciclista, oggi non la ricorderemmo di certo.
Anche Paolo Venturini per certi versi parte lungo come Dancelli, da un Roberto Visentini dal quale non riesce a levar gli occhi, ma poi li apre e ce li apre scoprendo e ripercorrendo la straordinaria carriera di uno dei corridori più prolifici e vincenti degli Anni Settanta. Racconta da par suo di mamma Teresa e papà Ettore, passando per il nonno Giuseppe detto “Faustì dell’urici d’or”, dall’orecchino d’oro. Michele non ha né l’orecchino né tantomeno l’anello al naso: è tipo sveglio, scaltro e dotato. Settimo e ultimo di sette figli. Con suo fratello Narciso è beato fra le donne: Virginia, Maria Teresa, Laurina, Margherita, Matilde sono tutte un segno del destino.
A 14 anni incomincia a fare il muratore, sono gli anni di “Poveri ma belli”, e lui povero e bello lo è per davvero. Braccia forti e gambe d’acciaio: sarà la famiglia Costanzi a metterlo in bicicletta. A Travagliato il primo piazzamento, un terzo posto. La prima vittoria poco dopo, con tanto di maglia tricolore del CSI. «Mamma, se divento ricco ti compro la casa…», è la promessa che Michele manterrà. È un “ragazzo di vita”, un volto cinematografico intenso e ribelle che sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini, ma lui di cinema non ne fa, Michele è tipo concreto e vincente. Per uno come Bruno Raschi - che di ciclismo se ne intende precchio - «… quasi tutte le tappe o le corse sono per Dancelli». Il ragazzo da Castenedolo, se solo volesse potrebbe primeggiare sempre e su ogni terreno: corse in linea o a tappe, pianura o montagna. Lui va.
È un talento Michele Dancelli e questo libro ce lo racconta con franchezza senza turibolare. È un libro sincero, che racconta i punti di forza e di debolezza di un uomo che non è mai stato un superuomo. Poteva anche esserlo, avrebbe anche forse potuto, ma non sarebbe stato Michele Dancelli, con i suoi dubbi, i suoi sogni e le sue sbandate. Questo libro ci racconta una storia che il giovane Paolo non conosceva. Non sapeva nulla di quel corridore al fianco del suo idolo Roberto Visentini. Non sapeva né il suo nome né tantomeno che cosa avesse fatto o vinto fino a quel momento. Era a digiuno di tutto, ma non per questo si è privato della conoscenza e di una storia da raccontare e tramandare ai tanti Paolo che oggi non sanno chi è stato Michele Dancelli da Castenedolo e, come avrebbe detto negli Anni Sessanta il maestro Alberto Manzi, non è mai troppo tardi.
Prefazione del libro «Michele Dancelli, l’asso di fiori»