Dancelli e la Sanremo della svolta

Paolo Venturini ha scritto un libro su Michele Dancelli intitolandolo «L’asso di fiori - Le avventure ciclistiche ed umane di Michele Dancelli (www.lacompagniamassetti.it)
Vi proponiamo il capitolo 1 intitolato “La svolta”

Ho percorso migliaia di chilometri in sella ad un bici per imparare quello che so della vita, dello sport, dell’amore, del destino e delle vicende umane. E ho capito che a volte, in una gara, come nella vita, basta un istante, una scelta, uno scatto al momento giusto, per cambiare, nel bene o nel male, il corso di una esistenza.
Non ho mai goduto di grandi simpatie da parte della stampa e della tv, nonostante ricevessi continui attestati di sti­ma da parte dei colleghi e abbia avuto sempre un nutrito gruppo di tifosi in tutta Italia e all’estero. Ho dovuto ritagliarmi un pizzico di notorietà a suon di vittorie e piazzamenti in corse di prestigio per destare attenzione. Ma c’è una data, nella mia carriera da ciclista, che funge da spartiacque: è il 19 marzo 1970. Quel giorno per tutti divenni finalmente un campione, anche se io sa­pevo da tempo di esserlo. Vinsi la Mi­lano Sanremo con una cavalcata solitaria di oltre 70 chilometri e un totale di oltre 200 di fuga, sfatando un tabù che resisteva da 17 anni, ed entrando anche per questo nella storia del ciclismo.
Il racconto di una vita in sella ad una bici, parte quindi necessariamente da quel fatidico giorno. Arrivo alla Clas­si­cissima (per i non appassionati di ciclismo la Milano Sanremo è definita così per la sua longevità con la prima edizione disputata nel 1907 e un percorso che negli anni ha subìto poche modifiche) con la mente sgombra da pensieri o ambizioni, nonostante fosse una corsa che mi aveva visto protagonista nelle edizioni precedenti. O meglio, un pensiero mi frullava in testa, e agitava un poco le mie notti da qualche settimana. Da quel viaggio in auto a dicembre con Giorgio Albani, team manager e direttore sportivo alla Molteni, diretti ad una battuta di caccia nel Novarese organizzata dal patron. Era una delle poche occasioni di svago a fine stagione, al contempo serve a cementare il gruppo (una specie di pre-ritiro) e alimentare buone relazioni con la stampa solitamente invitata all’appuntamento (quella volta vi parteciparono fra gli al­tri Gianni Brera e Adriano De Zan), mo­mento prezioso per i giornalisti per scoprire il volto umano dei corridori, al di fuori delle competizioni. “Michele - mi disse Albani, ad un certo punto, a bruciapelo, lontano da orecchie indiscrete, ma con quel suo fare schietto e interessato - mi sa che il prossimo anno ti devo diminuire l’ingaggio perché hai reso meno del previsto in questa stagione (1969)”.
“Ma come - risposi piccato - quest’anno forse non ti sei accorto, o fai finta di non sapere, che mi sono sacrificato spes­so per tirare le volate a Marino Basso (ne ha vinte 10), gli ho fatto da balia, ho portato lui e di conseguenza la squadra a vincere tante volte. E nonostante questo sacrificio ho ottenuto 8 successi personali, fra i quali una tappa al Giro d’Italia ed una al Tour de Fran­ce. Non mi sembra poco”.
Albani, con cui il rapporto, nonostante la stima reciproca, non fu sempre idilliaco, aveva il potere a volte di farmi sa­lire la mosca per il naso. Forse, il suo in­tento quella volta, era quello di stimolarmi a fare meglio, ma ottenne l’effetto di farmi incazzare. “Basta fare la balia a Basso o a chiunque altro - promisi a me stesso - nel 1970 dovrò essere più egoista, pensare a fare più risultati. Altro che taglio d’ingaggio, io merito di più. E per giunta ho appena messo su famiglia, devo ancora sistemarmi”.
Appena partita la stagione piazzai subito la botta vincente al trofeo Laigueglia, la classica inaugurale che vinsi per la seconda volta in carriera. Giusto per mettere in chiaro le cose e spedire un messaggio ad Albani e alla dirigenza del­la Molteni: quest’anno si cambia musica.
L’avvicinamento alla Milano Sanremo, sulla carta uno dei miei grandi obiettivi stagionali, non fu tuttavia dei migliori, sotto il profilo atletico e dell’umore. Una settimana prima partecipai alla Pa­rigi Nizza vinta alla fine da Merckx, ma nella quale rischiai di vincere la quarta frazione, se la mia squadra non m’avesse messo i bastoni fra le ruote. Quel giorno avevo staccato Merckx in salita, quando il compagno Basso, nelle retrovie disse a Van Den Bossche di inseguirmi, col risultato di portarmi sotto Eddy e vanificare i miei sforzi. Mi lamentai non poco con Basso e chiesi spiegazioni ad Albani, così non poteva funzionare. Poi ci mise il maltempo a rendere pessimo il clima in squadra. Poche volte ho sofferto così tanto in una corsa ciclistica. Costretto al ritiro dopo alcuni giorni corsi sotto la pioggia battente, il vento gelido, un freddo penetrante e persino la neve. Ero vuoto, esausto, senza energie ed ho seguito a bordo strada l’ultima tappa della corsa francese, disputata invece sotto uno splendido sole, in un clima primaverile. Tornato con la squadra in treno a Mi­lano guardando in ca­gnesco Albani e Basso, dal momento che da tre giorni non toccavo la bici, proposi al compagno e amico Mario An­ni di tornare a Brescia in bici, una sgambata di un centinaio di chilometri per sciogliere i mu­scoli e ritrovare una condizione accettabile per affrontare il giorno seguente la Sanremo. Anni, bresciano come me, è stato un fidato gregario per alcune stagioni e un amico sincero, oltre che un valido collega, ac­cet­tò volentieri di accompagnarmi, poi l’avrei riportato in auto con mia moglie a Milano, dove io e lei avremmo cenato da soli, lontano dal team. Dopo un lau­to pasto con la neosposina Anna, andai subito a letto dormendo a lungo e pro­fondamente per la stanchezza accumulata. Sarebbe stato un sonno ristoratore. I piani tattici della vigilia, in casa Mol­teni, prevedevano che Anni mi restasse accanto come supporto nelle fasi salienti della gara, col sottoscritto pronto a dare battaglia e ad inserirsi nella fuga giusta. Non potevo sapere che sarebbe andata diversamente.
Al ritrovo di buon mattino davanti al Ca­stello Sforzesco il cielo è terso e an­nuncia una classica giornata di primavera, ma l’aria punge ancora la pelle come il becco di un picchio su un tronco di quercia, è frizzante e carica di tensione, non solo agonistica purtroppo.
Pochi mesi prima, a pochi isolati dal luogo di partenza, il 12 dicembre del 1969 un ordigno piazzato alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana fa una strage: 17 morti e 88 feriti il tragico bilancio. Considerata la “madre di tutte le stragi”, fu l’avvio di quella che gli storici definiscono la “strategia della tensione”, l’inizio degli Anni di piombo tra attentati, uno dei quali insanguinerà quattro anni dopo la mia Brescia, e tanti omicidi a sfondo politico.
Quell’atto vile (chiunque l’abbia compiuto o progettato, di destra o di sinistra poco importa, sempre atto vile resta) sconvolse e mise l’Italia in allarme. Pochi peraltro ricordano che quel 12 dicembre non vi fu solo l’attentato sanguinoso di piazza Fontana, ve ne furono in tutto cinque fra Roma (tre con 16 feriti alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, uno in piazza Venezia e l’altro all’Altare della Patria) e Milano con una bomba inesplosa da­vanti al teatro La Scala. L’obiettivo era colpire luoghi di assembramento di persone e la partenza di una gara tanto popolare come la Milano Sanremo, av­venimento popolare di grande richiamo per gli appassionati e non solo, era un obiettivo sensibile. Nel ciclismo non si paga il biglietto per vedere da vicino i propri beniamini (eccezion fatta per le Sei Giorni nei velodromi) e gli stessi corridori sono certamente più disponibili per rilasciare un autografo (oggigiorno fare selfie) con i tifosi.
Quest’anno l’atmosfera però è diversa, la carovana è blindata da uno schieramento di polizia eccezionale. Tuttavia noi atleti di solito veniamo protetti, ri­sparmiati il più possibile dalle tensioni esterne, per non compromettere la no­stra concentrazione. Quindi, in real­tà, non mi sono quasi accorto di quella differenza, preso dai preparativi della cor­sa. Salgo in sella alla bici che Er­nesto Colnago, mi ha preparato a puntino come al solito. Colnago, all’epoca semplice meccanico alla Molteni, oggi è il capitano d’industria della bici, artigiano sopraffino del pedale, profondo innovatore ed ambasciatore della qualità made in Italy nel mondo, fondatore di uno dei marchi di biciclette più conosciuti sulla Terra.
Provo a fare due pedalate attorno al Castello per vedere se tutto è a posto e soprattutto avvertire le prime sensazioni sulla mia condizione fisica. La crisi dei giorni precedenti sembra assorbita, il riposo mi ha rinfrancato, sento che può essere una giornata buo­na. Quando mi appongo il nu­mero sulla schiena mi trasformo in un cavallo al palio di Siena, scalpito, e l’adre­nalina sale col countdown. Come si abbassa la bandierina del mossiere, non di rado parto all’attacco, d’istinto, se sento le gambe girare nel verso giusto. Ma bisogna fare i conti con le energie degli av­versari. Inizio perciò a squadrarli mentre si preparano, cerco di leggerne i vol­ti. A volte una smorfia, un atteggiamento ti aiutano a capire se han­no dormito bene la notte, se sono in forma, se in­tendono dare battaglia. Li vedo tutti i grandi campioni, nessuno del resto vuo­le mancare alla Sanremo, una sorta di Mondiale di primavera. Li osservo bene i vari Merckx, Motta, Gimondi, Adorni, Bitossi. Poi l’occhio mi cade su Rik Van Looy, Rik II per distinguerlo da Van Steenbergen.
Il campione fiammingo, uno dei più grandi di sempre, capace di vincere tut­te le classiche dette Monumento (San­re­mo, Fiandre, Roubaix, Liegi e Lom­bardia) nonostante i 37 anni, ha ancora carisma da vendere. Lo squadro bene nella sua posa ieratica, ma l’atteggiamento è tutto sommato rilassato (si ritirerà però nell’agosto di quell’anno) di colui che sa il fatto suo, l’occhio vispo dei giorni migliori, sicuramente ha in­tenzione di fare qualcosa per mettere in difficoltà l’astro nascente del suo paese, quell’Eddy Merckx che inizia a fargli un po’ troppa ombra e grande favorito della gara. “Inoltre - penso - è un ottimo passista, di quelli che non si tirano indietro anche se mancano molti chilometri al traguardo, non ha timore di esporsi o spendere troppe energie. Sì, oggi sarà lui l’uomo da marcare, mi in­collerò alla ruota dell’imperatore di He­rentals (questo il suo soprannome), an­drò dove va lui”.
Poco dopo le 9 la carovana muove a passo forzatamente lento per il trasferimento in periferia di Milano, mentre lo sferragliare di catene accompagna la sfilata di oltre duecento corridori verso la Chiesa rossa lungo il naviglio Pavese. Il quartiere popolare che ospita il via vo­lante della Classica è stato terminato da pochi anni dallo Iacp e prende il nome dal colore dell’edificio religioso che sor­ge accanto. Un nome, Chiesa rossa, che suona di questi tempi persino eversivo, ma a noi ciclisti in fondo della politica poco importa. Nelle vesti di mossiere c’è Adriano Rodoni, presidentissimo dell’Uvi (Unione velocipedistica italiana) poi diventata Fci e dell’Uci (Unione ciclistica internazionale) che guida dal 1957 (lo farà fino al 1981, nessuno così longevo), potentissima guida del nostro sport in ambito mondiale. Uomo di un altro secolo (è nato a fine Ottocento) ha guidato le sorti del mondo delle due ruote nonostante una bassa scolarizzazione e una lingua francese (l’idioma ufficiale nel ciclismo) parlata come un certo risotto popolare da queste parti, con tanto di locuzioni meneghine a farcire la lingua di Vol­taire. Detto anche il De Gaulle del ciclismo, lo conosco be­ne Rodoni, perché mi ha vestito più volte di tricolore, e poi è un lombardo come me, schietto, pratico e risoluto, ma guai a contraddirlo o a mettergli i bastoni fra le ruote. Lo si deve anche a lui se Brescia ha potuto avere ad inizio degli anni Sessanta un busto dedicato a Fausto Coppi posizionato sotto la curva sud dello stadio Rigamonti dove il campionissimo terminò nel 1959 la sua ultima corsa in carriera, il trofeo Ba­rac­chi. Monumen­to, che l’amico da poco scomparso Sandro Sellari, ha poi provveduto di recente, con grande insistenza presso il Comune, a salvare dal de­grado e abbandono.
L’attesa febbrile per la sessantesima edizione della Milano Sanremo è alimentata dai quotidiani sportivi che alla vigilia si chiedono se sia la volta buona per gli italiani. Da 17 anni un connazionale non risulta vincitore nel “Mondiale di primavera”, dalla doppietta messa a segno da Loretto Petrucci nel 1952 e ’53. Quasi un’altra generazione, quasi un altro ciclismo, dalle strade bianche e polverose della Riviera dei fiori di un tempo, oggi la corsa si disputa su filanti nastri di asfalto con bici veloci come il vento. Cresce tra gli appassionati del pedale persino il rimpianto per l’epoca d’oro delle mitiche sfide fra l’Airone di Castellania, campionissimo pure di stile e il toscanaccio di Ponte Ema “con quel naso triste come una salita e gli occhi allegri di un italiano in gita” canta Pao­lo Conte, oggi è Giusto fra le Nazioni per il salvataggio di molti ebrei compiuto durante la seconda Guerra mondiale (del quale non fece pubblicità perché, disse, il bene si fa ma non si dice). Ci si interroga su chi può essere il predestinato a succedere a Petrucci, il nuovo salvatore dell’onore italico di fronte allo strapotere straniero degli ultimi anni e giù un fioccar di nomi, colonne di piom­bo per incensare Motta e Gimon­di, i novelli Coppi e Bartali in un certo racconto giornalistico o Adorni già  cam­pione iridato, oppure Basso o Bi­tos­si, ruote veloci che tengono la distanza e salite brevi. Quasi nessuno menziona il sottoscritto, accreditato per lo più d’essere un guastafeste, un attaccante troppo impulsivo, una testa calda non in grado di finalizzare. Nessuno crede, a parte me, che possa essere il giorno della svolta.
Mentre le cronache sportive raccontano l’attesa per il riscatto nazionale alla San­remo, le prime pagine dei quotidiani na­zionali sono concentrate sull’ennesima crisi di Governo, fra l’incarico sfumato per Fanfani e un nuovo mandato per Rumor, alchimie di palazzo generate per lo più dai mal di pancia della Ba­lena Bianca (come amava definire la Dc Gianpaolo Pansa) che sfuggono in gran parte alla comprensione del popolo. In­teressato a dire il vero in quei giorni più alle “pruderie” di provincia, agli scandaletti rosa­-noir post boom industriale, alle storie confezionate da un giornalismo a suo modo da manuale im­perniato sulle tre Esse: sesso, sangue e soldi. Tre ingredienti tutti presenti nel “giallo di Parma” che monopolizza in quei giorni i tabloid scandalistici, ovvero la boccaccesca vicenda con protagonista la bella e conturbante Tamara Ba­roni, mancata miss Italia perché sposa bambina, mo­della, attrice/cantante e la sua love story proibita con il re del vetro, Pierluigi Bormioli, detto Bubi, maritato con la nobile Maria Stefania Balduino Serra. Una trama grottesca e tutta da ridere, da film dei fratelli Van­zina, eppure in grado di narrare più di un libro di storia una certa Italia “piccolo borghese”. Tamara Baroni, detta anche Tamiura, perché fece da testimonial al varo della Lamborghini Miura, una delle più belle auto sportive dell’epoca e uno dei miei sogni proibiti, fu accusata ingiustamente in quei giorni di aver ordito il tentato omicidio della con­tes­sa, moglie dell’imprenditore playboy, vittima di un incidente, ma si fece ugualmente 47 giorni di carcere.
Per­sonaggio anticipatore del femminismo (lo dice la sua avventurosa vita), la giovane Tamara sperimentò sul­la propria pelle cosa volesse dire alienarsi le simpatie della stampa (ne sapevo qualcosa pure io), complice il suo atteggiamento sfrontato oppure perché semplicemente mal consigliata, con frotte di paparazzi pronte ad avventarsi sulla sua vita privata come uno squalo su un naufrago.
Icona sexy di una provincia godereccia, ma nel suo intimo ancora molto puritana, l’affascinante novella Cleopatra, nonostante alcune pellicole di scarso valore e successo (Visone nero su pella morbida e Gatta pericolosa i titoli am­miccanti e furbi dei suoi film nel 1970) conquisterà una grande popolarità nei mesi a seguire, merito pure di certe co­pertine in cui posò nuda o seminuda su Playboy (dove tenne anche una gettonata rubrica), Playmen e Le Ore. Oggi­gior­no il suo nome non dice più nulla, ma una rivista di gossip osè arrivò persino a promettere in allegato “i peli di Ta­mara Baroni” (non propriamente quelli della lingua) col risultato di passare da una tiratura di 40mila a 300mila copie. Corteggiata da cineasti come Carlo Pon­ti o Dino De Laurentiis, registi co­me Fellini (a patto che ingrassasse subito di 20 chili) ad un certo punto rifiutò quell’ambiente e si allontanò dal mondo dello spettacolo per rifugiarsi nella quinta arte, la poesia. Emigrata col terzo marito nel Nord est del Brasile, divenne una poetessa in lingua portoghese molto affermata e apprezzata. Per lei scelte ed incontri hanno rappresentato una svolta nella carriera, anche lei come il sottoscritto, in altro contesto però, ha sofferto l’avversione della stam­pa, ma soprattutto i pregiudizi della gente, che ti affibia certe etichette e pretende di giudicarti sempre con lo stesso metro.
Per fortuna esistono giorni, situazioni, avvenimenti nella vita di una persona che svelano a sé e agli altri la nostra vera natura, chi vogliano o de­sideriamo essere, una sorta di Epifania per sé, ma soprattutto per gli altri.
Ho sempre desiderato, fin da quando ho inforcato una bicicletta e iniziato le prime sfide sui pedali ancora adolescente durante le pause pranzo al cantiere, diventare un campione di ciclismo e ho sofferto quando non ci riuscivo o peggio non venivo considerato tale. Non potevo sapere che l’Epifania da campione erga omnes sarebbe avvenuta il 19 marzo 1970, il giorno della svolta.

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