Editoriale
Ciclismo mon amour. Disertato dai pezzi da novanta del ciclismo mondiale, perché troppo duro e troppo vicino al Tour de France, il Giro ’97 ha saputo spremere, come meglio non avrebbe potuto, i suoi protagonisti. Mancavano i Riis, gli Zuelle, i Jalabert, i Virenque e via elencando, ma la corsa rosa è riuscita - in barba a tutti - a ricavare il massimo dalla materia prima che aveva. Se qualcuno nutriva qualche perplessità sullo stato di salute del ciclismo, in termini di popolarità, le strade del Giro hanno dato una risposta inequivocabile: il Giro ha «convocato» sulle strade una moltitudine di sportivi. Certo, non si paga il biglietto, lo sappiamo; ma chi accetterebbe di muoversi all’alba, in macchina o in sella alla propria bicicletta, per piazzarsi quattro-cinque ore prima del passaggio dei corridori sul ciglio della strada, e accontentarsi di assistere a uno spettacolo di pochi secondi: il tempo del passaggio della corsa? Se non è passione questa...

Cipollini mon amour. È vero, non è il caso di negarlo, l’ordine d’arrivo dell’80° Giro d’Italia non è certo dei più esaltanti, ma questi ragazzi, da Guerini a Miceli, da Noè a Savoldelli e Di Grande hanno contribuito tutti a esaltare il pubblico italiano che ha dimostrato di gradire lo spettacolo. Soprattutto ha applaudito e promosso a protagonista assoluto Mario Cipollini, toscanaccio atleticissimo, bello, guascone e coraggioso al punto giusto. Cipollini è stato giusto con tutti: con se stesso, vincendo cinque tappe; con Gotti, aiutandolo come nessuno poteva nemmeno immaginarsi; con il gruppo, mettendo a disposizione il suo carisma e il suo peso «politico» anche per quei corridori che altrimenti non avrebbero vinto uno straccio di un traguardo. Per far questo si è esposto in prima persona e ha fatto guadagnare due soldi ai suoi colleghi meno dotati e alla giuria... che l’ha multato a più riprese come se il vero sport fosse questo.

CONI mon amour. Alessandro Bertolini è risultato «positivo» per caffeina al Giro dei Paesi Baschi. E al momento di andare in macchina il corridore trentino potrebbe anche gareggiare nonostante l’esito di analisi e controanalisi risalenti allo scorso mese di aprile. Il nuovo «regolamento antidoping» (art. 10 comma 6) dice soltanto: «L’atleta confermato positivo deve essere sospeso in via cautelare e non può svolgere attività sportiva fino all’esito della decisione definitiva del competente organo giudicante della Federazione Sportiva». In pratica: la sanzione è di competenza della giustizia federale (in questo caso della Disciplina della Lega), la sospensione no. Quella spetta al Coni, anche se loro dicono di no. Una cosa è certa: dopo tante parole, campagne stampa, sensibilizzazione, investimenti in materia di doping, siamo al punto in cui non solo non possiamo sperare che questa piaga sia definitivamente battuta ma abbiamo il timore che tutto sarà inutile perché ci sono dirigenti che riescono a complicare anche quel poco che era comprensibile. Ma poi risolveranno tutto alla loro maniera, come sempre: una bella commissione, e qualche portavoce. Anche se non hanno più nulla da dire.

Casco mon amour. Provate a chiedere ad Alberto Volpi o a Gabriele Colombo se il casco serve a qualcosa. Loro la zucca se la sono salvata proprio in virtù di quella scodella scomoda ma tanto utile. Eppure, nonostante le cadute a ripetizione avvenute all’ultimo Giro d’Italia, molti, troppi corridori continuano a non indossare questo strumento di lavoro necessario, per non dire indispensabile. Noi che di Marco Pantani siamo insospettabili sostenitori siamo rimasti senza parole nel vederlo cadere lungo la discesa del valico di Chiunzi. Lui che di incidenti ne ha avuti un sacco e una sporta, come può ancora andare in discesa senza il caschetto? Siamo forse monotoni, ma l’associazione corridori, che s’indigna quando gli organizzatori mettono due curve di troppo, perché non fa qualcosa affinché questo strumento, per il momento ancora considerato «accessorio» non diventi obbligatorio? Ah già, dimenticavamo: per il casco ci vuole la testa.

Percorsi mon amour. All’ultimo Giro d’Italia abbiamo potuto verificare, una volta di più, che troppo spesso i team fanno le cose con grande approssimazione. Corridori che non conoscono le tappe e tantomeno le conoscono i loro tecnici. Questo può sembrare un problemino di poco conto, ma a nostro modestissimo parere queste «leggerezze» possono costare caro: sia dal punto di vista tattico che dal punto di vista della sicurezza. Conoscere una tappa, le sue strade, può agevolare i compiti tattici. Se poi si conoscono le strade questo può tornare a vantaggio anche dell’incolumità fisica degli atleti stessi. Leonardo Piepoli, sfruttando il giorno di riposo, andò a visionare la tappa di Varazze e in particolare il temutissimo passo del Beigua. Valutò la difficoltà della salita e la pericolosità della discesa e il giorno della gara risultò tra i più bravi: perché si sentiva sicuro. La stragrande maggioranza dei corridori in quella tappa, ma anche in numerose altre, ignorava il Beigua e il tortuoso finale, fatto di discese ripide e strade tooboga. Ad avallare la tesi della conoscenza c’è Ivan Gotti, che ha vinto il suo Giro praticamente in Val d’Aosta: su strade che conosceva a menadito. Quel giorno a Cervinia non commise alcun errore, spingendo laddove era più opportuno spingere e tirando il fiato nei tratti meno congeniali. Ha ricordato lui stesso: «Su queste strade ho corso tantissimo e ho vinto pure due Giri della Val d’Aosta da dilettante. Ho corso come se fossi di casa: meglio non mi sarei potuto gestire». L’improvvisazione sarà anche una bella cosa, ma quando ci sono di mezzo parecchi miliardi e la sicurezza degli atleti non sarebbe il caso di fare le cose con maggiore scrupolo?
Pier Augusto Stagi
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