L'amarezza di Colbrelli, la tragedia di Keil
di Gian Paolo Porreca
Avremmo pure emozioni in cuore, che nella mente riponiamo, buone per il futuro, in scia di questi primi giorni di ciclismo alle Olimpiadi.
E quasi tutte di stampo (per gradire o per non smentirci) olandese: la Slovenia ci è Eden oscuro. Pensiamo, ed è facilissimo, alla Van Vleuten argento in linea e poi oro contro il tempo, dopo quella Olimpiade precedente (Rio, 20916), che sembrava aver segnato per lei la fine sportiva, con quella rovinosa caduta e le fratture spinali e una commozione cerebrale...
Pensiamo, ed è più sottile, a Dumoulin, argento nella crono, che insegna come si possa tornare all’agonismo competitivo dopo aver tirato il fiato e semmai guardato più in là, e a quel suo abbraccio fraterno a Roglic, la medaglia d’oro, suo compagno di squadra. Un abbraccio sereno, rimiratelo, radioso, non di un secondo, ma di un risorto: ogni cosa al posto suo, chissà, nella vita e nello sport, per Tom.
Di questo parleremmo, ci piacerebbe, una discesa dai morbidi tornanti.
Ma c’è invece non uno sguardo di fine luglio, ma una frase diretta dal Tour de France che ci turba e ci fa ragionare, chissà perchè, di altre questioni.
Ed è la frase di Sonny Colbrelli, dopo la perquisizione eseguita dalla Gendarmeria francese nell’albergo della sua squadra, la Bahrain Victoriuos, con una particolare attenzione dedicata - si è detto - al nostro campione in carica, al belga Teuns e all’olandese Poels, alla ricerca di prodotti vietati. Con tanto di Pc, computer della bici e telefonini da esaminare e/o consegnare, per una indagine aperta in merito dalla Polizia di Marsiglia.
«Ci hanno trattato come fossimo criminali», questa l’amara e sconsolata affermazione di Colbrelli.
E si è riaccesa in noi la memoria, o forse la ferita, di quanto sia stato in assoluto scellerato il doping e quanto devastante in parallelo per uomini e cose, e storia del ciclismo, la lotta al doping al Tour 1998, quello per antonomasia, quello dell’EPO al comando, quello dello scandalo Festina, di Voet e Roussel, delle altre squadre in fuga dalla Francia per timore dei controlli, quello salvato come si disse - e come abbiamo scritto anche noi - da Marco Pantani.
«Trattati come criminali», si addolora giustamente Colbrelli, che nel ’98 aveva solo otto anni. Ma quanti ricordano la garde a vue imposta dal giudice Patrick Keil ai corridori della Festina, sine die, perché confessassero di avere assunto EPO, con il povero Zulle a cui tolsero anche gli occhiali? Quanti ricordano il team manager della TVM olandese, Cees Priem, costretto in carcere per quattro mesi, fino al giorno di Natale ’98, e alla protesta ufficiale del governo olandese, privato del passaporto come un serial killer ?
E chissà se Colbrelli ha mai saputo della fine drammatica di Eric Rjjckaert, il medico della Festina, certo reo confesso di aver gestito un doping di squadra, in analogia a quanto si affermava facesse per altri team il celebre Michele Ferrari. Il dottor Rijckaert, malato di un cancro al polmone, e pure costretto dalla giustizia francese in galera per 100 giorni... Rijckaert, che di cancro al polmone morirà due anni dopo. Quanta vita gli è stata malamente sottratta ?
«Ci hanno trattato come criminali», e questa frase ci ha profondamente turbato, come tornasse l’eco di una storia che resta in senso lato umanamente malvagia, da Virenque a Brochard, certo, dopatori e dopati, frodatori del doping e paladini dell’antidoping, figuranti al di là di ogni credibile dubbio.
«Ci hanno trattato come criminali», e ci auguriamo solo che non succeda mai più, e non solo per le qualità degli avvocati di parte e l’equilibrio dei magistrati inquirenti, ma perché il crimine resti un reato estraneo allo sport.
P.S.Il giudice Patrick Keil, il severo magistrato di Lille che aveva condotto inchiesta e processo, è stato trovato morto, in una casa di fitto, due anni fa, a 56 anni. Viveva in miseria, dopo essere stato isolato dai vertici della Magistratura per l’impatto e le tensioni del processo e infine rimosso per una serie di reati compiuti successivamente nel corso della sua professione, e condannato ad un anno di reclusione.
Dopo essere stato abbandonato anche dalla famiglia, Keil si era dato all’alcool. Ebbe la lucidità però nel 2009 di scrivere il libro 'Du barreau aux barreaux', come si possa cioè passare dalla sbarra di giudice alle sbarre del carcere... un testo in cui racconta la deriva lavorativa, fisica e psicologica che l’affaire Festina - da lui interpretato in fondo come una lotta personale, almeno contro i poteri economici e la maggior parte dell’opinione pubblica - aveva scatenato dentro nel suo animo. Sarebbe cosa buona e giusta, per Colbrelli e per chi quel tempo lo ha vissuto e non più rimosso, che fosse tradotto finalmente in italiano il libro di Keil. E reso onore alla sua discesa all’inferno.