Fabio Aru, speranza rosa
di Pier Augusto Stagi

Ha visto gli indiani appostati lassù in cima per poter os­servare meglio. Osser­vare soprattutto loro, quei piccoli guerrieri che risalgono lentamente la montagna sui loro destrieri d’acciaio, mulinando e sbuffando fatica tra la polvere e la canicola di un maggio incandescente. Fabio Aru è poco più che un ragazzino adolescente e, davanti alla tivù nella sua casa di Villacidro, divora rapito quella tappa da leggenda che lo proietterà in un sogno che presto per lui diventerà realtà.
Ci sono gli indiani sul Colle delle Fi­nestre. È la primavera del 2005, per la prima volta nella sua storia il Giro sale lento verso i 2.176 metri di quel colle di polvere e creta, che spicca nelle Alpi Cozie e collega la bassa Valle di Susa alla Val Chisone, in Piemonte. Lì, dove ad un certo punto il bosco come d’incanto si dissolve per lasciare lo spazio agli arbusti e alle pietre aguzze come colli di bottiglia, si consuma la sfida fi­nale e definitiva del Giro d’Italia nu­mero 88.
«Ho quelle immagini vivide e nitide nella mia mente. Ricordo alla perfezione ogni fase di quella tappa - racconta oggi Fabio Aru, 28 anni il prossimo 3 luglio, pronto a tuffarsi dal 4 al 27 maggio in un sogno a tinte rosa con la ma­glia della UAE Emi­rates -. Fino a quel 2005 io so davvero poco di ciclismo e del Giro d’Italia. Da ragazzino, dai 6 ai 15 anni, ho praticato solo calcio e tennis. A pallone ho sempre giocato nel ruolo di attaccante, con caratteristiche innate: quelle dello scarso. Ho giocato tanto an­che a tennis, lo sport prediletto da papà Alessandro, ma non ho mai sentito il sacro fuoco della passione dentro di me. Poi un bel giorno arriva il ciclismo. La prima gara è proprio nel maggio di quell’anno. La maglia è della Piscina Irgas. Partecipo ad una Ma­ra­thon di mountain bike. È un vero e pro­prio calvario. Non me ne va bene una: buco più volte, e alla fine perdo anche la strada. Arrivo al traguardo staccato di ore dal primo. Diciamo che l’inizio non è stato assolutamente semplice, ma non mi sono perso d’animo. Anzi. Se una dote ho, è quella che non mi arrendo tanto facilmente, sono uno che ha la testa dura, durissima. La bicicletta mi conquista, mi piace come nessun’altra cosa al mondo. Sogno un giorno di correre il Giro d’Italia, e sen­to dentro di me che con la bici riuscirò a fare strada».
Prima del Giro d’Italia, vai in giro per l’Italia. Come per Nibali, è impensabile pensare di poter diventare corridore sull’Isola. Mancano squadre, attività e strutture. Nel luglio del 2009 superi l’esame di maturità classica, fai le valigie e parti per il Continente: direzione Berga­mo. Fino a quel momento papà Alessandro e mamma Antonella, ti hanno aiutato ad andare a correre gare di ciclocross in Emilia ogni fine settimana, finalmente approdi in un team molto ben strutturato di under ’23, che è stato fucina di talenti del calibro di Ivan Gotti e Wla­di­mir Belli. Arrivi alla corte di Oli­vano Locatelli, che ti prende sotto la sua ala protettrice alla Palazzago di Ezio Tironi.
«Non è facile ambientarsi, anche quel periodo è piuttosto duro. In un attimo mi trovo tutto solo in un ambiente nuo­vo, senza i miei punti di riferimento. Ma io una cosa in mente ce l’ho: a casa ci torno solo da corridore professionista. Certo, papà sperava che diventassi come Nadal o Djokovic, ma si deve ac­contentare di un figlio che va piuttosto forte in bicicletta. Oggi è il mio primo tifoso, come mamma Antonella e mio fratello Matteo, che tiene la contabilità di tutti i miei risultati».
Torniamo però a quelle prime immagini del Giro del 2005: a quel Colle delle Fi­nestre.
«Sono affascinato dal paesaggio, dai tantissimi tifosi che sin dal giorno pri­ma sono saliti in bici, muniti di ten­de e sacco a pelo, fin su in cima: li chiamano indiani, perché da lontano l’impressione ottica è proprio quella. Io ho sem­pre fatto il tifo per gli indiani, sono sempre stato dalla parte di chi non ha mai avuto i favori del pronostico. An­che in quella tappa, le mie simpatie sono tutte per Danilo Di Luca, José Ruja­no, ma soprattutto per Gibo Si­moni, che di Giri ne ha già vinti due e che decide di attaccare la maglia rosa Salvoldelli. Non ho nulla con il bergamasco, ma amo la sfida, e quindi parteggio per chi deve recuperare una si­tuazione difficile. Sono bellissime quelle immagini. I tifosi affollano la cresta del monte, i corridori si affannano su quelle strisce di terra mista a ghiaia. Mi affascina l’idea che in un mondo ipertecnologico e fatto dal progresso bitumico, c’è chi si trova nell’anno Duemila a dover pedalare e lottare su strade sterrate come i pionieri del ciclismo. Gilberto Simoni è davanti, José Rujano e Danilo Di Luca gli sono a fianco. Per Gibo può essere il terzo sigillo al Giro, ma non sarà così. Il trofeo senza fine finisce a Savodelli per la seconda volta in carriera».
Simoni, Di Luca, Rujano sembrano tre cowboy, ma l’indiano, alla fine è Sa­vol­delli…
«Indiano perché lascia fare, fa finta di non curarsene troppo. Lascia che si sfoghino, poi lungo la discesa il Falco fa capire al mondo intero per quale ragione gli hanno affibbiato da sempre quel nick-name. La sfida però è davvero bella. Gibo ci prova in tutti i modi. Divora lo sterrato con ardore, Paolo quasi con pudore risponde. Controlla, lascia che si sfianchi. Aspetta il suo momento: mai attaccare quando non è il caso. L’attimo va prima atteso e poi colto. Questa è la regola. Osservo in­cantato, ed è lì che capisco che il ciclismo non è solo forza. Non è solo espressione o dispersione di energia, ma è un trattato di intelligenza tattica e psicologia. Paolo scollina con due mi­nuti e otto secondi, trova alleanze, stringe accordi: salva la ma­glia rosa per 28”. Il Giro è suo».
Sei nato a San Gavino Monreale, ma da sempre vivi a Villacidro, il paese che ha dato i natali anche a Giuseppe Des­sì, il quale tra le altre cose ha scritto: “Da ragazzo solo qui mi sentivo a casa mia, solo qui mi pareva che la vita avesse un senso, e anche ora tutte le volte che ci ritorno, mi sembra di capire veramente tutto”. Anche tu, nato in un giorno del Tour di quel 3 luglio del 1990, senti di aver capito tutto?
«Sento di appartenere alla mia terra, ci sono molto legato e orgoglioso. Mi sen­to sardo in tutto e per tutto. Amo il Ca­gliari, simpatizzo per il Milan. Ma il mio piccolo grande idolo ciclistico da ragazzino è un atleta di questa terra, poco conosciuto ma molto bravo: Sa­muele Pisu, un campione di mountain bike. Di lui ho ritagliato la foto dall’Unione Sarda e per lungo tempo l’ho tenuta appesa in camera. Sono uno che ha sempre amato la libertà e l’aria aperta. Adoro viaggiare, esplorare e conoscere. Certo, più si sta via e più bello è il ritorno a casa. Più bello è l’approdo: qui a Villacidro. La bici fin da subito mi serve per spostarmi velocemente da casa al campo dove l’erba è ruminata dai tacchetti, e da casa ai campi in terra rossa. Poi, però, il colpo di fulmine. Il momento che ti cambia la vita. Nella mia vita appare una “Easy Time”, una bici di quarta categoria, roba da supermercato: però per me è già molto e rappresenta il tutto».
Poi nel 2007 scopri il Giro d’Italia, sulle strade della Sardegna…
«Ad Alghero, questa volta sono lì, sulle strade: immerso nel Giro. Resto affascinato e rapito dal clima che si respira attorno a questa corsa magica che at­tra­versa il tempo e unisce un Paese. Si respira chiaramente aria di evento e di festa. Il Giro d’Italia non è solo una corsa ciclistica: lo si vede ad occhio nudo. Basta osservare come si muovono frenetiche le autorità politiche e quelle religiose: le istituzioni. Le scuole sono in festa. I bambini colorano i marciapiedi con i loro grembiulini bianchi e le loro bandierine rosa. È una pioggia di coriandoli rosa, palloncini colorati e cartelli preparati da giorni. È la festa dei paesi d’Italia. È la corsa che meglio di altre ci racconta e ci rappresenta. Il Giro non è solo una corsa in bicicletta, ma è molto di più I corridori sono il mezzo, non il fine. Sono il filo conduttore; un filo rosa, che lega tutto e che tutto scopre».
Poi, finalmente, il Giro lo corri.
«È il sogno che si corona. Tocco il cielo con un dito. È il 2013, corro per l’Asta­na, la squadra kazaka capitanata da Vincenzo Nibali. È dura, ma mi diverto. Alla fine chiudo il mio primo Giro 42°, ma contribuisco al successo finale di Vincenzo e nella tappa della tormenta, quella delle Tre Cime di Lavaredo vinta sempre da Enzo, io concludo quin­to».
Arriva anche la prima vittoria.
«Liberatoria, inattesa e inebriante come poche. Sulle strade di Pantani, quelle che conducono ad Alpiaz Mon­tecampione, dove il Pirata ha scritto una delle pagine più emozionanti e memorabili del nostro sport. Sull’am­miraglia ho un maestro di tattica come Giuseppe Martinelli, tecnico di lungo corso che con Marco ha vinto Giro e Tour, e poi ha portato al successo an­che Stefano Garzelli, Gibo Simoni, Da­miano Cunego e Vincenzo Nibali. Insomma, rompo il ghiaccio vincendo una delle tappe più belle di quel Giro 2014, vinto da Nairo Quintana, dove io termino sul terzo gradino del podio».
Infine, torniamo all’inizio: al Colle delle Finestre e agli indiani.
«La vita è davvero cronaca che diventa storia e poi romanzo. Trovarmi lì nel 2015 ha qualcosa di magico. E mi ci trovo nel ruolo di protagonista. Posso far saltare il banco. Sono un po’ il Gibo Simoni del 2007, ma questa volta l’indiano, scaltro e tenace, è un certo Al­berto Contador. Io sul Colle delle Fi­ne­stre lo metto alle corde, gli faccio sputar sangue, ma lo sputo an­ch’io. Conta­dor fatica, barcolla, ma alla fine si dif­ende molto bene e vince il Gi­ro; io at­tacco e vinco la tappa. Sul po­dio sono secondo: un’apertura di credito verso il futuro. Ma quel giorno, pe­dalando su quello sterrato carogna, mi sono sentito in ogni caso grande. E penso: chissà quanti piccoli Aru mi han­no seguito davanti alla tivù, so­gnando un giorno di poter essere qui anche loro…».
Il Giro è narrazione: qual è per te la voce fuoricampo?
«Auro Bulbarelli, con il commento tecnico di Davide Cassani. Poi ho visto tantissimi DVD storici, con il commento di Adriano De Zan: grande, immenso, sicuramente ha segnato la storia della televisione e del nostro sport, ma io nel cuore ho la voce di quella coppia fantastica: Bulbarelli-Cassani. Sono loro, per me, la colonna sonora narrante».
Se tu fossi ancora quel ragazzino di quindici anni, e ci fosse la tappa del Giro in tivù da vedere, con chi la guarderesti?
«Se avessi ancora 15 anni, con nessuno. Le gare amo guardarle in assoluto silenzio. Non amo ascoltare i commenti di nessuno, odio le osservazioni. Non voglio alcuna persona attorno a me: cerco di isolarmi per non perdermi una sola immagine, un solo gesto. Come in bicicletta, amo staccarmi dal gruppo, per poi lasciarmi trascinare dal tifo del grande popolo del ciclismo, che poi è frastuono, delirio: sogno. Un sogno che spesso diventa realtà, e infine racconto».
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