Diktat Saronni: Aru, voglio risposte

di Stefano Arosio

«Entro la prima settimana di giugno dovremo avere delle risposte. Sono io che le vo­glio». Beppe Saronni il suo Giro d’Italia non ha ancora smesso di pedalarlo. Dopo una corsa rosa «a cui non posso dare un voto, altrimenti sarei costretto a darlo molto basso», adesso «occorre fare una valutazione esatta e il più approfondita possibile».
Non serve essere a Goodwood per tirare fucilate. Il general manager della Uae Emirates non è uno che le manda a dire. «Anche perché gli investimenti sono stati decisi e concordati tra tutti. Anche i ruo­li all’interno della squadra. Quando qualcosa non funziona o qualcuno non riesce a fare le cose al me­glio, ne deve rispondere».
Lucido e concreto, Saronni non si sottrae alla vivisezione di un Giro morto ancor prima di essere concluso. Su Fa­bio Aru erano riposte tutte le aspettative, ma anche le energie del team. E s’è presto capito che il polso del leader non batteva di vitalità particolare.
«Già nelle prime salite abbiamo visto Fabio faticare, tenere a denti stretti. In attesa che la condizione migliorasse. E la squadra ha tenuto fede al proprio obiet­tivo, correre per il leader. Il pri­mo, il secondo o il terzo posto erano un obiettivo e noi abbiamo fallito. Al di là di questo, dispiace non essere stati protagonisti».
Il punto è proprio questo. Recitare un ruolo di primo piano è stata un po’ la cifra distintiva dell’Uae Emirates sin dai tempi della Lampre Merida. Il di­ret­tore sportivo Mario Scirea, prima della Ferrara-Nervesa della Battaglia, aveva spiegato che «prima si modulava la stagione su vittorie di tappa, ora si corre per un capitano». Ma una vittoria di tappa, nella terza settimana in rosa e con un Aru ormai senza pretese di classifica, avrebbe effettivamente ammorbidito il boccone che Saronni ora non riesce a inghiottire.
«Nella seconda parte del Giro, dopo che Fabio non poteva più avere ambizioni, in effetti sarebbe stato logico modificare l’atteggiamento di squadra e cercare una vittoria. Ma non è un passaggio così semplice. Se i corridori sono impegnati a lavorare per un capitano, non è immediato dire “ok, ora liberi tutti, cercate di vincere”. Un po’ perché le energie dei nostri corridori ormai erano state spese, un po’ perché il Giro ci ha detto che sono sta­te poche le squadre che sono poi riuscite a spartirsi i successi di tappa. Ai tempi della Lampre, tranne che nelle stagioni di Simoni o Tonkov, si gareggiava per i traguardi di giornata. Que­st’anno non abbiamo nemmeno portato corridori veloci e a quelli che erano presenti abbiamo chiesto sacrifici. Sapevamo che cam­biare impostazione da un giorno all’altro non sarebbe stato così semplice».
Senza nascondersi dietro ipocrite di­plo­mazie, Saronni è ancora più chiaro.
«Proprio per dire quanto sia difficile cambiare l’approccio alla corsa, faccio un esempio: Simon Yates è stato l’assoluto dominatore della prima parte di Giro. Avrebbe forse potuto correre con più attenzione e forse sì, le cose per lui avrebbero potuto andare diversamente. Credo sia stato un caso emblematico e sotto gli occhi di tutti e naturalmente lo dico senza avanzare alcuna critica. So bene che devo guardare solo in casa mia».
Perché fra tanti se e qualche ma, Sa­ron­ni si dedica appieno alla ricerca di quella risposta che aspetta e che deve ancora arrivare: cosa si è inceppato nel­la rincorsa di Aru a un Giro da copertina?
«In questo momento siamo in una fase in cui prima bisogna radunare le idee. Tutti. E comprendere appieno le cose. Una volta fatto il punto della situazione, dovremo correggere gli errori. Fa­bio ha davanti a sé un buon programma che prevede Vuelta e Mon­dia­le, ma solo in un secondo momento, e quando sapremo quel che è effettivamente ac­caduto, valuteremo se mantenerlo inalterato oppure no».
Fin troppo scontato mettere sotto os­ser­vazione l’impostazione atletica, il concetto si spinge oltre.
«Ci siamo fidati di Fabio, che ha im­pos­tato la preparazione convinto di po­ter far meglio nella terza settimana, sul­l­a base dell’esperienza degli anni precedenti. Corre con noi da quest’anno e l’abbiamo assecondato. Lui era convinto di questo e ha convinto anche noi».
Le cose sono andate molto diversa­men­te, sino al ritiro prima di Bardo­nec­chia.
«Quando siamo arrivati sullo Zonco­lan, penso ci sia stato un crollo innanzitutto psicologico: lì Fabio ha realizzato che la condizione era rimasta quella dei giorni precedenti, che non c’era la crescita che si aspettava. Aru ha un ca­rattere fortissimo, è un ragazzo che non lascia niente al caso, ma è chiaro che certe cose possano lasciare il se­gno. In un certo senso, tutti siamo de­boli».
Fatte ipotesi e tesi, serve la dimostrazione: «Ora il nostro compito, lo ribadisco, è cercare di capire dove si sia sbagliato. Sono io per primo a volerlo appurare, anche perché altrimenti il mio ruolo sarebbe nullo. Serve avere delle risposte per cercare di uscirne. E dobbiamo interrogarci tutti, valutando la gestione medica, atletica e tecnica». Per disinfettare una ferita aperta, Sa­ronni cerca di cicatrizzare, ma le sue parole bruciano come alcool sulla carne viva.
«Quel che dispiace è anche vedere co­me si fosse creato un vero gruppo di amici. Una collaborazione importante tra tutti i ragazzi. C’era coesione nel gruppo e questo deve essere sottolineato. Poi, è chiaro, questo concetto non può che essere un punto di partenza, non certo di arrivo. Ma ripartiamo da qui. E pensiamo a una seconda parte di stagione che deve necessariamente es­sere migliore. Lo dobbiamo a noi stessi, ma anche al gruppo di investitori che ha creduto nel nostro progetto».
In altre parole, dare certezze per evitare oscillazioni di spread. Per Saronni è sempre una questione di fiducia, in questo caso nei confronti di chi ha vo­luto una Uae Team Emirates ambiziosa: «Esat­tamente. Non dobbiamo di­men­­ticarci di essere sotto la lente di in­grandimento, noi portiamo in giro il no­me degli Emirati Arabi Uniti. Il no­stro è sì un progetto a lungo termine, ma non si fa fatica a capire come i buo­ni risultati possano fornire entusiasmo e ulteriore incremento degli investimenti. In questa fase della stagione si comincia a programmare il team dell’anno successivo. Individuare nuovi corridori, valutare l’inserimento di altri leader. Noi, come altri, abbiamo già avuto i primi contatti. Ma finché non avremo capito cosa è accaduto, sarà difficile capire come muoverci. In questa situazione, il meccanismo un po’ si inceppa. Per questo serve capire. E non possiamo aspettare troppo».

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