
29 SETTEMBRE '74, NAPOLI E LA PARIGI-TOURS
di Gian Paolo Porreca
Seduto in quel caffè di via Nisco, seduto in quel caffè domenica 29 settembre, “io non pensavo a te”.
Seduto in quel caffè, 29 settembre 1974, pensavo a lei la bruna di sangue con la “128” bianca coupé che puntualmente - mi illudevo del contrario, ma si era per vero invaghita del centromediano del Napoli - non arrivava all’appuntamento. E in quel caffè di via Nisco, a Napoli, città di iniqui paradigmi per gli homines novi, non mi restava che guardare la Tv e Rai 2, oggi è Archeologia dello Sport, e vedermi così il finale della Parigi - Tours, la corsa ciclistica di fine stagione, hai visto mai.
Seduto in quel caffè, 29 settembre, ma già ero proclive al sambuchino, pochi esami alla laurea in Medicina, mi consolai al gioco ironico di Gerben Karstens, un masnadiero olandese di buone letture, che si prendeva amabilmente gioco del giovane italiano troppo giovane per le nostre vite scettiche, Francesco Moser. In maglia Bic, Karstens a fine carriera siglava così un elzeviro, di quelli che non si firmano più, scattandogli via alle spalle dal lato opposto a quello cui Moser, in testa a condurre nella volata a due, era rivolto… Maglia Filotex buona per una dormeuse, Moser ne restò folgorato. Seduti in quel caffè, noi amatori del ciclismo e amanti respinti, noi di 29 settembre 1974, a Napoli, brindammo one more time da soli.
E quale fu, o non fu - perché quel ciclista olandese noto al cuore non era ignoto invero alle manfrine del doping - la mia sorpresa due giorni dopo a leggere, firmava Piero Ratti sulla “rosea”, che il successo luminoso del pomeriggio scorso era stato rimosso al corridore olandese, e giustamente attribuito al nostro Moser young ragazzo dai capelli neri, per un tentativo di frode da Karstens perpetrato, e così squalificato, al controllo antidoping… Già, un sistema idraulico di tubicini adesi alla cute, per poter addivenire ad una bustina di urine integre, e non cariche di anfetamine, storiche adiuvanti del ciclismo dell’epoca, come verosimilmente sarebbero risultate quelle proprie del vittorioso Karstens. Urine colpevolmente virginali e celate, che non sarebbero però sfuggite al dottor De Modenard, il severo medico, o solo il medico leale, responsabile in Francia allora del controllo antidoping nel ciclismo.
E chissà perché sentiamo a Napoli di ottobre, profuma troppo di autunno e di foglie morte, questa storia dell’ultima domenica di settembre 1974. Forse solo perché, da chirurghi cardiovascolari quali saremmo nella vita diventati, essa ci sarebbe clamorosamente tornata in mente venti anni dopo, nell’ottobre 1994 o giù di lì, quando uno stratagemma di questo genere, quello del proporre urine contraffatte, sarebbe stato architettato da un camorrista celebre. In un importante ospedale, appunto napoletano.
Quella volta però il dolo fu diverso.
Perché il campione di urine, nascosto sotto una camicia, e da cui ad arte eseguire il prelievo, doveva documentare lo stato di una insufficienza renale gravissima, tale da giustificare il ricovero cautelativo del camorrista in Ospedale: e non la prosecuzione di un severo regime carcerario. Invocava il male. E non gli andò bene.
1974-2024, mezzo secolo fa, in noi e fuori di noi. E chissà perché sentiamo tanto più vicino a noi il sotterfugio di Karstens che non quello (1994) del camorrista. Sorridiamo allora, per allora e per ora, tanto non c’è più nessuno consapevole a dibatterne con noi, e neanche un bar per un sambuchino amico, perché almeno le false urine di Karstens ma sì erano urine in buona salute.